La notizia è che, grazie anche a una promozione commerciale neanche troppo conveniente, tra i 75 album più venduti di questa estate 2006 ci sono ben 13 dischi dei Pink Floyd, primo tra tutti quel The dark side of the moon che dal 1973 restò per dieci anni nella top twenty americana, e da solo ha venduto 33 milioni di copie in tutto il mondo. Sarà l’effetto della morte del fondatore e leader storico della band inglese, quel Syd Barrett che però viveva preda della sua malattia mentale da 35 anni? Per quale fenomeno il rock, la musica “giovane”, è dominata da signori ultrasessantenni? Siamo di fronte a un fatto sociale che dovremmo cercare di capire
articolo di Gino Nobili
Il rock ha più di 50 anni, anche prendendo per buona la data di nascita ufficiale, quel 1954 in cui venne fuori Bill Haley con Rock around the clock. Le sue radici però stanno nel fermento successivo alla seconda guerra mondiale, nell’espansione e rimescolamento di particelle che – la dinamica dei gas insegna – accompagna sempre le fasi di espansione esplosiva. La liberazione economica, mentale e sessuale che c’era dietro gli ancheggiamenti di Elvis trascinò il fenomeno e creò l’industria discografica. Da allora solo in due o tre occasioni il mondo della musica cambiò radicalmente, introiettando fenomeni sociali. Uno di questi, la psichedelia, con le sue origini scientifiche (Timothy Leary e i suoi studi sull’espansione della coscienza) e colte (i poeti della beat generation), arrivò nella musica rock già con i Beatles: Lucy in the Sky with Diamonds era un inno apertamente dichiarato all’L.S.D., il cui abuso mandò in pappa il cervello di Syd Barrett dopo avergli fatto “creare” i Pink Floyd.
La carica dei centoun-enni
In realtà, Barrett ha personalmente soltanto fondato, dato il nome e scritto il primo disco della celeberrima band. Ma la sua follia, che gli stroncò la carriera, aleggiò nello spirito dei Pink Floyd, e soprattutto del loro nuovo leader Roger Waters, almeno per tutto il decennio successivo: l’album Wish you were here era dedicato a lui, la title track e la bellissima Shine on you crazy diamond ispirate a lui, così come poi la figura di Pink in The Wall. Waters, che ha lasciato il gruppo nel 1983, in tour questa estate porta tutto dark side e buona parte degli altri pezzi storici dei pink. Ha sessant’anni, e accanto a me allo Stadio Olimpico c’era una famiglia venuta dalla Campania, tre generazioni! E i ventenni in platea erano la maggioranza e sapevano le canzoni a memoria.
San Siro, pochi giorni dopo, stesso fenomeno: tre generazioni di fan, con preponderanza di giovanissimi, assistono all’esibizione di un gruppo di vecchietti che i cattivi hanno già ribattezzato Rolling Bones, Ossa rotolanti, anziché Stones. Ma le vecchie pietre hanno ancora molta più carica trasgressiva del 99% dei loro epigoni affacciatisi sul mercato discografico nell’ultimo decennio.
Keith Emerson, sessantenne genio delle tastiere sulla breccia dalla fine degli anni 60, si porta sul palco tre ragazzi che faticano fisicamente a stargli dietro, in tre ore filate di concerto con brani che durano fino a venti minuti l’uno, inconcepibili nell’asfittica produzione di oggi: se avete strappato un contratto con una casa discografica, e gli proponete un brano di più di 4 minuti, si straniscono, più di 5 vi licenziano. Eppure, di nuovo, a sentire il progressive di Emerson, e a Roma anche di molte altre band storiche del genere come il Banco del mutuo soccorso, c’erano soprattutto ragazzi.
Se pensiamo che anche Vasco Rossi ha la sua età, gli U2 e i REM non sono certo ragazzini, Springsteen e Dylan sono due vecchi signori, e così tutto il cantautorato nostrano (l’immagine di Lucio Dalla che scende dalla Cayenne col gatto morto in testa è da brividi…), coi più giovani che vanno verso la cinquantina, viene da chiedersi: “perché? perché quando questi signori sono emersi sulla scena musicale quelli che sono andati a rimpiazzare, che tutti giudicavamo vecchi, erano in realtà molto più giovani di quanto non siano adesso loro, che nessuno però considera andati?”
In realtà, Barrett ha personalmente soltanto fondato, dato il nome e scritto il primo disco della celeberrima band. Ma la sua follia, che gli stroncò la carriera, aleggiò nello spirito dei Pink Floyd, e soprattutto del loro nuovo leader Roger Waters, almeno per tutto il decennio successivo: l’album Wish you were here era dedicato a lui, la title track e la bellissima Shine on you crazy diamond ispirate a lui, così come poi la figura di Pink in The Wall. Waters, che ha lasciato il gruppo nel 1983, in tour questa estate porta tutto dark side e buona parte degli altri pezzi storici dei pink. Ha sessant’anni, e accanto a me allo Stadio Olimpico c’era una famiglia venuta dalla Campania, tre generazioni! E i ventenni in platea erano la maggioranza e sapevano le canzoni a memoria.
San Siro, pochi giorni dopo, stesso fenomeno: tre generazioni di fan, con preponderanza di giovanissimi, assistono all’esibizione di un gruppo di vecchietti che i cattivi hanno già ribattezzato Rolling Bones, Ossa rotolanti, anziché Stones. Ma le vecchie pietre hanno ancora molta più carica trasgressiva del 99% dei loro epigoni affacciatisi sul mercato discografico nell’ultimo decennio.
Keith Emerson, sessantenne genio delle tastiere sulla breccia dalla fine degli anni 60, si porta sul palco tre ragazzi che faticano fisicamente a stargli dietro, in tre ore filate di concerto con brani che durano fino a venti minuti l’uno, inconcepibili nell’asfittica produzione di oggi: se avete strappato un contratto con una casa discografica, e gli proponete un brano di più di 4 minuti, si straniscono, più di 5 vi licenziano. Eppure, di nuovo, a sentire il progressive di Emerson, e a Roma anche di molte altre band storiche del genere come il Banco del mutuo soccorso, c’erano soprattutto ragazzi.
Se pensiamo che anche Vasco Rossi ha la sua età, gli U2 e i REM non sono certo ragazzini, Springsteen e Dylan sono due vecchi signori, e così tutto il cantautorato nostrano (l’immagine di Lucio Dalla che scende dalla Cayenne col gatto morto in testa è da brividi…), coi più giovani che vanno verso la cinquantina, viene da chiedersi: “perché? perché quando questi signori sono emersi sulla scena musicale quelli che sono andati a rimpiazzare, che tutti giudicavamo vecchi, erano in realtà molto più giovani di quanto non siano adesso loro, che nessuno però considera andati?”
La storia procede a gradoni
La verità la otteniamo mettendo ordine ai pensieri in libertà con cui abbiamo esordito. Schematizzando al massimo, possiamo rintracciare alcuni “salti storici” fondamentali nella storia della musica pop-olare, che hanno influenzato la realtà economico sociale circostante e a loro volta ne sono stati determinati. Il primo, dicevamo, è la liberazione sessuale dei giovani americani seguita all’esplosione economica e di gioia di vivere del dopoguerra, che ha portato al rock’n’roll e ne è stata governata. Il secondo è il citato processo di ampliamento della percezione legato alla psichedelìa, con base britannica in due riprese negli anni 60, seguito dal movimento progressive. Il terzo è la coppia hegeliana punk/postpunk della seconda metà degli anni 70. Il quarto parte dal cosiddetto riflusso degli anni 80, a seguito del quale il capitalismo si riappropria dei giovani, in quanto consumatori, in tutti i campi, dal vestiario alla musica. Da quel momento in poi, qualsiasi altro mutamento è apparente e superficiale, industrialmente indotto e culturalmente ininfluente, anche per la diminuzione relativa del numero di giovani nella matura società occidentale. Il quinto non ci sarà mai – e spiegherò perchè, non nel mondo come lo conosciamo.
La verità la otteniamo mettendo ordine ai pensieri in libertà con cui abbiamo esordito. Schematizzando al massimo, possiamo rintracciare alcuni “salti storici” fondamentali nella storia della musica pop-olare, che hanno influenzato la realtà economico sociale circostante e a loro volta ne sono stati determinati. Il primo, dicevamo, è la liberazione sessuale dei giovani americani seguita all’esplosione economica e di gioia di vivere del dopoguerra, che ha portato al rock’n’roll e ne è stata governata. Il secondo è il citato processo di ampliamento della percezione legato alla psichedelìa, con base britannica in due riprese negli anni 60, seguito dal movimento progressive. Il terzo è la coppia hegeliana punk/postpunk della seconda metà degli anni 70. Il quarto parte dal cosiddetto riflusso degli anni 80, a seguito del quale il capitalismo si riappropria dei giovani, in quanto consumatori, in tutti i campi, dal vestiario alla musica. Da quel momento in poi, qualsiasi altro mutamento è apparente e superficiale, industrialmente indotto e culturalmente ininfluente, anche per la diminuzione relativa del numero di giovani nella matura società occidentale. Il quinto non ci sarà mai – e spiegherò perchè, non nel mondo come lo conosciamo.
I raccoglitori di talenti
Fino a tutti gli anni settanta, dunque, l’emersione nel panorama discografico di un nuovo talento era più o meno proporzionale all’innovazione e/o al talento. L’industria discografica embrionale di prima della guerra, di fronte alla nuova domanda creata dagli anni 50 dalle condizioni materiali migliori sia in se che in termini di richiesta di “divertimento”, reagirono “raccogliendo” in modo abbastanza casuale i talenti che emergevano. E il primo salto storico avvenne in questo quadro.
Il quarto di secolo che seguì fu quello dei giovani, in tutti i campi. Lo scontro generazionale, partito col rock’n’roll e inaspritosi coi figli dei fiori, raggiunse il culmine con le contestazioni convenzionalmente indicate come “del 68” e “del 77”. I ragazzi del baby boom, già numericamente preponderanti e poi sempre più visibili, erano dichiaratamente “fuori” e “contro” le convenzioni sociali instaurate dai loro padri. Anche se, come per primo Pier Paolo Pasolini evidenziò, tutto ciò era reso possibile proprio dal relativo benessere instaurato dal sistema che loro intendevano combattere. Nella musica tutto ciò si traduceva in un prepotente movimento dal basso verso l’alto: i ragazzi per partito preso non ascoltavano i dischi di papà, ma andavano a cercare e si scambiavano i dischi e passavano parola per i concerti dei loro eroi, quasi tutti all’inizio poverissimi e trascurati dall’industria discografica. Lo sfocio naturale fu la straordinaria stagione delle radio libere, un periodo pionieristico in cui le trasmissioni erano autogestite e le scelte musicali guidate esclusivamente dall’interesse cultural-musicale dei vari conduttori. Le radio private divennero presto migliaia, spesso di vita effimera, sempre ricchissime in quanto a scelta musicale e fermento culturale. In questo quadro avvennero il secondo e il terzo salto storico di cui sopra.
Fino a tutti gli anni settanta, dunque, l’emersione nel panorama discografico di un nuovo talento era più o meno proporzionale all’innovazione e/o al talento. L’industria discografica embrionale di prima della guerra, di fronte alla nuova domanda creata dagli anni 50 dalle condizioni materiali migliori sia in se che in termini di richiesta di “divertimento”, reagirono “raccogliendo” in modo abbastanza casuale i talenti che emergevano. E il primo salto storico avvenne in questo quadro.
Il quarto di secolo che seguì fu quello dei giovani, in tutti i campi. Lo scontro generazionale, partito col rock’n’roll e inaspritosi coi figli dei fiori, raggiunse il culmine con le contestazioni convenzionalmente indicate come “del 68” e “del 77”. I ragazzi del baby boom, già numericamente preponderanti e poi sempre più visibili, erano dichiaratamente “fuori” e “contro” le convenzioni sociali instaurate dai loro padri. Anche se, come per primo Pier Paolo Pasolini evidenziò, tutto ciò era reso possibile proprio dal relativo benessere instaurato dal sistema che loro intendevano combattere. Nella musica tutto ciò si traduceva in un prepotente movimento dal basso verso l’alto: i ragazzi per partito preso non ascoltavano i dischi di papà, ma andavano a cercare e si scambiavano i dischi e passavano parola per i concerti dei loro eroi, quasi tutti all’inizio poverissimi e trascurati dall’industria discografica. Lo sfocio naturale fu la straordinaria stagione delle radio libere, un periodo pionieristico in cui le trasmissioni erano autogestite e le scelte musicali guidate esclusivamente dall’interesse cultural-musicale dei vari conduttori. Le radio private divennero presto migliaia, spesso di vita effimera, sempre ricchissime in quanto a scelta musicale e fermento culturale. In questo quadro avvennero il secondo e il terzo salto storico di cui sopra.
Dalla coltivazione naturale a quella di serra, a quella intensiva, alla monocultura desertificante: quattro salti dalla padella alla brace.
Uno dei motivi per cui il sistema di potere chiamato convenzionalmente “democrazia capitalista” si è fin qui dimostrato vincente è la sua flessibilità e duttilità intrinseca. Di fronte a questa massa di giovani che si autodefiniva “fuori dal Sistema” non c’era migliore strategia possibile che farli rientrare inconsapevolmente, ma non tanto i singoli individui, che tanto invecchiano e se non diventano terroristi poi tengono famiglia e fanno carriera, quanto la categoria Giovani in quanto “target”: ecco che i jeans da pantalone economico da tenersi addosso fino a che non si strappava diventano articolo “casual” da vendersi caro già strappato, ed ecco che ti studio a tavolino come far continuare la crescita esponenziale che ha avuto “naturalmente” il mercato discografico nel decennio precedente. Il quarto salto storico avviene adesso, quando le radio private da libere diventano network commerciali, e i discografici cominciano davvero a meritare per il loro ramo l’appellativo industria, e raggiungono presto il fondo del barile cominciando subito a grattare. Dietro l’angolo c’è lo sviluppo dell’informatica e di internet, che unitamente alla drastica riduzione della popolazione giovanile svuoterà presto di significato le strategie industriali discografiche basate sul protezionismo dei diritti d’autore.
Ma nel frattempo, in questi quattro salti così frettolosamente illustrati, sono venuti fuori quasi tutti gli artisti che ancora calcano le scene. Del primo salto, pochi sono ancora in vita, venerati ma non troppo attraenti commercialmente. Delle altre due tornate, i primi hanno tra cinquantacinque e sessantacinque anni, e sono ancora i più numerosi, e i migliori dal punto di vista artistico: venuti fuori da genuina selezione meritocratica, portati su dal basso dalle braccia di milioni di sostenitori, sono ancora ascoltati e idolatrati sia da loro che dai loro figli, vanno sempre in cima alle classifiche e fanno il pieno negli stadi. I secondi hanno tra quaranta e cinquanta anni o più, e devono la loro fama al fatto di essere stati i primi ed ultimi prodotti dell’industria discografica, quando ancora un cd si poteva noleggiare e uno poteva ascoltare roba nuova, cui magari affezionarsi, senza spendere tanto. Molti sono spariti, ma quelli bravi sono rimasti e vendono dischi e riempiono stadi come i loro fratelli maggiori. Dopo di loro, nell’era del noleggio vietato e del download pirata, per fabbricare un nuovo artista l’industria ha dovuto investire sempre più soldi, e per assicurarsi la buona riuscita dell’investimento è dovuta ricorrere a strategie commerciali sempre più pervasive, che comprendono il controllo pressoché completo delle radio, il ritorno all’era del singolo a danno dell’ormai obsoleto album, e quindi da un lato un target oramai ridotto alla fascia immediatamente postadolescenziale, dall’altro prodotti sempre più standardizzati, per andare sul sicuro coi soldi spesi. Una sorta di monocultura intensiva che conduce ad una rapida desertificazione, insomma.
Negli ultimi quindici anni, di conseguenza, sono rarissimi i casi in cui è emerso un fenomeno musicale di qualità, in grado quindi di resistere oltre l’immediato effetto “moda” innestato dalla campagna di marketing. E tutti, giovani e meno giovani, se vogliono buona musica devono inseguire i vecchietti. Quelli che ai loro tempi sono potuti emergere nel panorama musicale per i loro meriti artistici, perché il mondo in cui vivevano consentiva ancora di vivere della propria arte ai più bravi e fortunati tra quelli che erano in contatto col lato oscuro della propria luna.