Lo scorso 6 febbraio è andata in scena la prima di Hotel Paradiso della compagnia tedesca Familie Flöz alla Sala Umberto di Roma e rimarrà in cartellone fino a domenica 11 febbraio.
Nonostante la compagnia scelga proprio la settimana di Sanremo per andare in scena, vince a mani basse perché la sala è gremita e un teatro pieno riempie anche gli occhi e il cuore.
Il sipario si apre su un modesto albergo sulle Alpi a gestione familiare dall’arredamento e dalla tappezzeria volutamente fermi nel tempo. Sulla scena si alternano Marina Rodriguez Llorente, Frederik Rohn, Nicolas Witte e Sebastian Kautz che vestono i panni, e le maschere, di diversi personaggi. Tutto, dalla carta da parati alla reception, parla dei bei tempi andati e della volontà ferrea di rimanervi agganciati pur sapendo che non torneranno mai più. La famiglia che gestisce la struttura è formata da un’anziana madre che, con cipiglio ferreo, pretende il massimo dai suoi figli: l’uno, deciso a mantenere le cose così come sono, l’altra, mossa da una spinta rinnovatrice e modernizzante, a cui piacerebbe rilanciare la struttura e riportarla all’antico splendore. Tutto sembra procedere per il meglio con il consueto humor semplice ma mai scontato a cui ci hanno abituati i Familie Flöz ma lo spettacolo pian piano acquisisce qualche nota noir che non stona affatto
I Familie Flöz hanno rieducato il pubblico ad un modo di comunicare e di stare in scena che contiene molte influenze, dalla clownerie al mimo, fino ad arrivare al lavoro teatrale con le maschere che vanta anni e anni di sperimentazione, il tutto senza usare neanche una parola. Eppure il linguaggio del corpo, nell’uso che loro sapientemente ne fanno, risulta eloquentissimo. Sul palco vediamo la precisione e la pulizia del gesto che conserva comunque una straordinaria naturalezza.
La messa in scena risulta omogenea dal punto di vista artistico ma anche tecnico grazie al disegno luci di Reinhard Hubert, alle musiche di Dirk Schröder, alle maschere di Thomas Raschern e Hajo Schüler, ai costumi di Eliseu R. Weide e alla scenografia di Michael Ottopal.
La regia di Michael Vogel, come ogni buona regia che non glorifica se stessa trattando gli attori come “supermarionette”, si mimetizza e si attacca sulla superficie delle maschere, sulle mani degli attori che compiono gesti concreti che fendono l’aria, sulla loro capacità di dare un corpo diverso ad ogni maschera che indossano, tanto che, uscendo dalla sala, alcuni spettatori giuravano di aver visto muoversi i lineamenti del viso quelle superfici inanimate.