La magia dell’avventura e della scoperta, l’irresistibile fascino che l’ignoto esercita sull’animo umano da sempre, pur foriero troppo spesso di drammi ed esiti infausti, costituisce il senso di uno spettacolo che porta il pubblico tra i freddi estremi dell’artico, epopea romantica e tragica come solo le grandi storie sanno essere. Nelle sere del 16 e 17 gennaio il teatro Trastevere ospita “La spedizione perduta. Lettere dal Polo” con Lahire Tortora. Un commovente viaggio vissuto su un palco, tra la poesia di Alessia Giovanna Matrisciano, le musiche di Marco Olivieri e i videointerventi a cura di Luca Travaglini.
Il fragore poderoso del vento invade la sala mentre le parole di spiriti tornati dalle proprie tombe di ghiaccio raccontano ciò che è stato. Cosa li portò su quelle navi, a partire per poi perdersi nell’oblio della fame e della malattia: La povertà, la sete di rivalsa, l’amore per i propri figli. O il desiderio di incidere il proprio nome nella storia. I sogni che si infrangono contro la durezza spietata e meschina della realtà, che può assumere le fattezze più diverse, anche quelle candide e fatali della banchisa artica, non vengono tuttavia cancellati e le memorie che si credevano perdute per sempre riemergono dai flutti per essere raccontate, per rivivere. Come se il dolore di uomini che hanno sfidato il mondo perdendo rovinosamente suscitasse talvolta empatia in quel destino amorale che dapprima travolge e dopo, però, recupera.
Si tratta delle vicende di due navi britanniche, la Erebus e la Terror, partite nel 1845 alla ricerca dell’allora inafferrabile e leggendario Passaggio a nord ovest, per raggiungere l’Asia orientale per una via più breve ma anche più insidiosa. Nessuno dei 129 uomini che lasciarono le coste inglesi nella primavera di quell’anno fecero ritorno a casa, dispersi nel gelido ignoto del polo nord. Ancora oggi sono molti i punti oscuri della vicenda ma di certo si sa che la Erebus e la Terror rimasero prigioniere per oltre due anni, incagliate senza vie d’uscita. Gli equipaggi, affamati e decimati da un incredibile avvelenamento da piombo causato dalle scatolette di cibo mal sigillate, decisero quindi di avventurarsi a piedi sulla banchisa, in una marcia disperata per raggiungere terra e salvezza. Ma non ci riuscirono.
I pensieri e le riflessioni, le paure e i rimpianti di quegli sventurati sognatori e spavaldi avventurieri ritrovano così la via di casa, dopo quasi due secoli, grazie alla voce e alla poesia di un lavoro in cui si sovrappongono documentario e teatro, prosa e musica, storia e fantasia. Dal capitano in cerca di riscatto che rassicura il proprio nobile interlocutore sull’esito dell’impresa al marinaio figlio di un “radicale che disprezzava la regina” e perciò veniva guardato male da tutti. E poi l’orfano abbandonato dal padre, assieme agli altri “tanti bambini dispersi”, che negli ultimi istanti di vita si compiace ironicamente di non avere una tomba “su cui la gente potrebbe venire a fare pettegolezzi”. Le persone più diverse accomunate da un uguale epilogo, tragico ed epico insieme, preceduto dalla tremenda lotta per la sopravvivenza. Il cui ricordo tuttavia non è andato perduto sotto il ghiaccio: “Queste sono le ultime notizie del capitano Frozier e di tutti gli altri. Pace all’anima nostra”.