Una riflessione sull’eutanasia, senza paura

(8 luglio 2012)

– Il termine “eutanasia”, in Italia, ha una certa connotazione di immoralità, a causa della notevole influenza che la Chiesa e il Vaticano hanno sulla mentalità comune e sul modo di sentire degli italiani. Negli ultimi anni si è notevolmente ampliato il dibattito su questo delicato tema, così come sul suicidio assistito. Sono temi che interessano non solo le categorie coinvolte nella cura dei malati  inguaribili, ma sempre di più il grande pubblico.Si tratta di qualcosa che può essere definito, in senso lato, come un atto compiuto da medici o altri, avente come fine l’accelerare la morte di una persona.

L’atto è da molti ritenuto giustificato, se aspira a porre termine ad una  situazione di sofferenza, tanto fisica quanto psichica, che il malato, o coloro ai quali viene riconosciuto il diritto di rappresentarne gli interessi, ritengono non più tollerabile.

Il suicidio assistito è qualcosa di più controverso ancora. E’ infatti un atto mediante il quale un malato si procura una rapida morte, grazie all’assistenza del suo medico curante: questi prescrive i farmaci necessari al suicidio, su esplicita richiesta del suo paziente, e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra in vena i farmaci al malato. Il problema non è se è lecito o no troncare volontariamente la vita di una persona, ma se è lecito che il medico assista il malato nel suicidio o procuri la morte con un atto deliberato. Vi sono delle prese di posizione contrarie all’eutanasia e al suicidio assistito, basate su argomentazioni giuridiche, per il fatto che la giurisprudenza in vigore nella gran parte dei paesi considera tali atti come veri e propri omicidi. Nella particolare situazione del suicidio assistito, a rendere la questione così controversa e spinosa è il fatto che, mentre il suicidio non è un reato, lo è invece il prestare aiuto o in qualche modo favorire chi intende suicidarsi.

Tuttavia, se è indiscutibile il principio della “sacralità” della vita, principio che è strettamente connesso all’etica religiosa, resta sempre un diritto del malato poter decidere di porre termine a un’esistenza divenuta intollerabile. Egli chiede perciò al medico di esercitare le sue conoscenze non più per mantenerlo in vita, ma per condurlo rapidamente e in maniera indolore alla morte. Per questo è necessario esaminare le condizioni nelle quali può sorgere la richiesta di eutanasia o di suicidio assistito. Spesso ci si trova di fronte a situazioni complesse, che richiederebbero una certa flessibilità di giudizio.

Per quanto riguarda i malati di cancro, si tratta spesso di persone che convivono con la malattia da diversi anni, sottoponendosi a trattamenti rilevanti, che causano a loro volta una serie di disturbi. E’ abbastanza scontato arrivare a uno stadio in cui il tumore si diffonde e colpisce altri organi del corpo,  causando dolori molto gravi, che a volte i farmaci non riescono a bloccare. In casi come questi è del tutto comprensibile che il malato consideri il suo stato intollerabile, e faccia quindi richiesta al medico di accelerare la sua morte. La stessa cosa vale per i malati di Aids, persone che hanno la certezza della morte e sanno quanti anni possono potenzialmente avere davanti.

Dopo un periodo abbastanza lungo di sieropositività, è facile essere soggetti a infezioni che portano anche a tumori maligni con effetti devastanti. In buona sostanza, se una persona malata ritiene di non essere più in grado di esercitare le normali funzioni vitali, anche se le sue facoltà intellettuali restano perfettamente integre, può avere il desiderio, legittimo, di porre fine alla propria vita. E’ giusto che sia la persona direttamente interessata a decidere se andare avanti o meno, e non deve essere un altro, nemmeno un medico, a scegliere per lui.

Vi sono infinite situazioni in cui una persona può ritenere che la sua vita sia esaurita, e che non vi sia alcuna ragione per prolungarla. A questo proposito si può pensare agli anziani, che in alcuni casi hanno gravi e multiple limitazioni delle loro capacità fisiche e psichiche, oltre che la sgradevole sensazione di essere “un peso” per i familiari che se ne prendono carico.  E’ comunque importante distinguere i casi estremi citati sopra, da altri che sono magari guaribili, e in cui il malato preferisce morire a causa di una depressione. E’ più opportuno, in queste situazioni, somministrare psicofarmaci e fornire supporto psicologico al soggetto in questione.

Un modello forse utile per l’Italia potrebbe essere quello dei paesi anglosassoni, nei quali, come dimostrano molte sentenze emesse da diverse corti di giustizia, è ritenuta eticamente accettabile la sospensione delle cure alle persone che si trovano in uno stato vegetativo persistente. E’ giustificato chiedersi, per ovvie ragioni, in quale misura sia più accettabile lasciar morire una persona, piuttosto che accelerarne la fine con un’iniezione letale. Tutti i medici hanno il dovere di applicare nel modo più corretto ed efficiente possibile le loro conoscenze e le tecnologie che hanno a disposizione, tenendo presente che tali strumenti non sono mai fini a se stessi, e che possono essere anche utili nel porre fine a sofferenze altrimenti ineliminabili.

Quando si pensa alla sacralità della vita, occorre anche chiedersi cosa si intende esattamente per “vita”. Bisogna tenere conto che ciò che distingue la vita umana da quella animale è un’insieme di esperienze, di relazioni con il mondo esterno, di emozioni, di pensiero, di ricordi, di sforzi per rendere la vita umana e degna di essere vissuta. La vita biografica e quella biologica sono due cose in qualche modo separate, perché la prima può cessare, come nel caso di uno stato vegetativo persistente, oppure può divenire semplicemente intollerabile, come nel caso delle malattie terminali. In taluni casi, la morte è necessaria, come il sonno alla fine di una lunga giornata. Va sottolineato che vi sono principi astratti e valori nei quali non tutti i cittadini di un paese sono tenuti a riconoscersi e a conformarsi. In un contesto come quello italiano, poi, si dicono spesso al malato pietose bugie o mezze verità, creandogli una barriera intorno che è solo apparentemente protettiva, ma che invece non fa altro che sottrargli libertà e dignità.L’esperienza di alcuni paesi europei, in particolare dei Paesi Bassi, che hanno civilmente depenalizzato l’eutanasia, andrebbe studiata e discussa anche in altri paesi, possibilmente nel nostro. L’Olanda è stata la prima nazione al mondo che, nel 2001, ha modificato il Codice Penale per rendere legali, in alcune circostanze rigorosamente normate, sia l’eutanasia, sia il suicidio assistito dal medico. Questa normativa contiene anche la disciplina relativa al testamento biologico. Le

dichiarazioni di volontà possono essere sottoscritte anche da minori, purché i genitori siano d’accordo se il minore ha fra i 12 e i 16 anni, mentre se ha fra i 16 e i 18 anni è sufficiente che ne siano stati informati.

In Italia è indispensabile intraprendere un cammino legislativo che stimoli la discussione, sia nell’opinione pubblica che in ambito medico, nelle professioni sanitarie e nella Chiesa. Ai religiosi verrebbe da chiedere: significa veramente sostituirsi a Dio accogliere la richiesta di un malato grave di poter morire? Dietro all’onnipotenza della medicina non si nasconde forse una difficoltà ad affrontare la morte? Questa poi, è giusto che il diretto interessato la possa affrontare come meglio crede.

Quanto all’etica cristiana, essa deve fornire delle risposte credibili di fronte alla sofferenza e al dolore, senza divagare e proiettarli irresponsabilmente in una dimensione di autolesionismo. A questo proposito viene in mente Piergiorgio Welby, malato di “SLA”, che nel 1997 è stato rianimato e tracheostomizzato. Respirava, si alimentava e parlava tramite macchinari. L’uomo, prima di morire, ha detto “noi abbiamo il senso della finitudine, il senso della precarietà, sappiamo di nascere e vediamo che gli altri muoiono, e poi ad un certo punto razionalizziamo che anche noi moriremo. Che senso ha tutto questo? Questo mondo è in continuo divenire”.

Welby è autore del libro, “Lasciatemi morire”, che è un’analisi degli orrori della sua malattia e la narrazione di un’atroce violazione della sua libertà. È la denuncia di una condanna a vivere (“morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”) e di tutti i luoghi comuni che gravano sull’eutanasia, ma è anche la richiesta di un dibattito parlamentare e politico che prenda sul serio la questione della regolamentazione delle decisioni di fine vita. Poco prima di morire, Welby scrisse una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano, di cui è memorabile la frase  «Vorrei che anche ai cittadini italiani fosse data la stessa opportunità che  è concessa agli svizzeri, belgi, olandesi». Frase che dovrebbe farci riflettere sul perché è necessario, non solo opportuno, che sia ridiscussa e finalmente ridefinita la nostra legislazione  sulla materi.

di Giulia Cortese (*)

(*) 23 anni, nata a Buenos Aires ma romana di adozione. Studentessa di Lingue e Letterature Straniere alla Cattolica di Milano, attivista del Partito Radicale. Frequentatrice di seminari organizzati dai vari think-thank sul pensiero liberale. Membro delle associazioni “Pari o dispare” (presieduta da Emma Bonino), “Radicali senza fissa dimora” e “Confcontribuenti”, associazione nazionale a difesa del contribuente.

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