La vita va avanti e il mondiale brasiliano anche. Archiviata la penosa disfatta azzurra infatti, tra una partita e l’altra delle squadre rimaste a contendersi la coppa, un fugace pensiero a mente fredda sull’uso politico dell’autoproclamatosi “sport più bello del mondo” si può fare.
Dovremmo dare atto alla sottile crudeltà delle parole attribuite a Winston Churchill, il carismatico leader inglese, che un giorno sottolineò quanto gli piacessero gli italiani che “perdono le guerre come fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre”, con una piccola annotazione, tuttavia: a differenza di allora, oggi non c’è più discrepanza tra le due dimensioni. È ufficiale, giochiamo a pallone esattamente come combattiamo: male.
Il potere ha sempre tentato di sfruttare i successi sportivi a fini propagandistici, ma dopo averli ottenuti per lo meno. Perché se lo fai prima, e poi rimedi gli 8 settembre in serie che sempre più spesso caratterizzano le sortite internazionali dei nostri eroi in braghe corte, non solo la cosa non funziona, ma tende ad essere financo controproducente.
Un po’ come gli spot pubblicitari che vediamo susseguirsi in questi giorni post tragedia sudamericana in tv, con protagonisti i giocatori della nazionale tronfi prima, evidentemente, della partenza per il Brasile. Alla comicità intrinseca che suscitano quelle scenette, tra carne in scatola e shampoo, alla luce dell’indegna eliminazione, si aggiunge la comprensibile voglia di non comprare mai più quei prodotti, se non altro per scaramanzia.
Suona fin troppo banale dire che, parafrasando De Gregori, un popolo non si giudica da un pallone, più o meno come la qualità di un calciatore non si vede da un rigore sbagliato. Si può anche ignorare tale concetto provando a far dimenticare le nefandezze endemiche di un Paese, corruzione, connivenze tra classi dirigenti e criminalità, viltà e tartuferie assortite sfruttando una sfera come strumento di redenzione collettiva per una Nazione che esiste solo per 3 settimane ogni 4 anni, sempre che non si esca al primo turno.
E l’escamotage può persino funzionare come accadde all’Italia nel 2006, con la vuota retorica del “Paese che riparte dai campioni” come disse Giorgio Napolitano che era già al Quirinale 8 anni fa, o dell’ancor più esilarante “lo spread lo scrivono gli Azzurri”, come titolava un noto quotidiano sportivo dopo la semifinale di Euro 2012 vinta 2-0 dall’Italia con la Germania, appena prima però di prenderne 4 in finale con la Spagna.
Si può quindi trasformare un gioco in una cosa seria, ma senza trattare le cose serie come giochi. Altrimenti o vinci sempre distraendo così l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi veri, o prima o poi qualcuno ti chiede conto. E poi perchè, diciamolo, tale atteggiamento non è onesto nei confronti del Paese, anche se questo vive a intermittenza, gironi permettendo.
Marco Bombagi