Sono passati quarant’anni dal mitico match che si svolse a Kinshasa il 30 ottobre del ‘74 tra Muhammed Alì e George Foreman, denominata The Rumble in the Jungle, e vinto dal primo per ko all’ 8 r, ma il ricordo di chi visse in diretta quell’ evento è ancora vivo e si tramanda alle nuove generazioni che magari Alì lo hanno sentito solo nominare . Tutto fu mitico in quel match, dalla vigilia in cui Alì dette spettacolo con i suoi interminabili discorsi nei quali, da buon appartenente ai musulmani neri dichiarava la superiorità della razza nera sui bianchi, allo svolgimento dell’incontro (alle 4 del mattino)perfettamente raccontati in un documentario dal titolo “Quando eravamo re” che vinse il premio oscar nel ’97.
Al contrario di quello che pensano in molti, tra i quali Gianni Brera che parlò di “dei della savana” favorevoli ad Alì, ritengo che l’incontro non fu combinato: che interesse avrebbe avuto Foreman, in quel momento considerato quasi invincibile e destinato a dominare per anni la categoria, a farsi sconfiggere in quel modo da un pugile che non aveva i favori dell’establishment dei bianchi dopo il suo rifiuto di andare in Vietnam? Questi incontri combinati prevedono sempre almeno una trilogia, invecenon solo non ci fu rivincita tra loro ma Big George si ritirò nel ’77 per poi tornare dieci anni dopo e rivincere il titolo a 45 anni.
In realtà il risultato del match fu probabilmente determinato dal contesto favorevole ad Alì, dalla sua intelligenza tattica, cioè appoggiarsi alle corde mentre l’avversario perdeva energie scaricando una serie di colpi spesso a vuoto e nell’ottavo round centrarlo con una serie di combinazioni di cui l’ultima determinò il ko di Foreman. Fu il canto del cigno di Alì, a parte la terza sfida con l’avversario per antonomasia Joe Frazier iniziò il suo declino fino al parkinson che oggi ce lo fa apparire tanto fragile e indifeso ma non ancora sconfitto.
Giuseppe Di Maggio