Abbiamo festeggiato il primo anniversario di Contrappunti il 14 luglio 2006 e oggi dovremmo celebrare il secondo. Ma non è il caso di abbandonarsi ai festeggiamenti. Un anno fa, finita l’euforia della vittoria elettorale, già cominciavano ad apparire le prime crepe. La coalizione che, secondo le baldanzose promesse di Prodi, avrebbe dovuto “stupire” gli italiani esordiva dando vita al governo più pletorico della storia repubblicana, approvando un indulto concepito male e realizzato peggio e mandando un ex terrorista a fare il segretario della Camera dei Deputati. Ma questo era solo l’inizio.
Questo governo ha fatto cadere non diciamo tutte le illusioni – perché alle illusioni oramai gli italiani sono più che vaccinati – ma tutte le speranze che il suo avvento potesse risolvere una parte almeno dei problemi lasciati irrisolti da cinque anni di permanenza a Palazzo Chigi del Grande Imbonitore.
Del bilancio di questi dodici mesi si salvano – per come la vediamo noi – solo la politica delle liberalizzazioni di Bersani, la politica estera di D’Alema, la politica antievasioni di Visco, tutto il resto può essere descritto, scomodando il vecchio Shakespeare, come ”una storia piena di furore e di rumore, e che non significa nulla”. Prodi, restando in tema, come un vecchio Macbeth, in attesa che i nemici o gli ex-alleati (si tratta di vedere chi arriverà per primo) gli facciano la festa; gli stessi membri della coalizione, nominalmente alleati, in accordo tra loro come i Capuleti e i Montecchi.
Per capire il clima da basso impero che oramai regna nella coalizione può bastare questo commento di Federico Geremicca sulla Stampa di ieri: “Rifondazione accusa il Pd di volere la crisi sulle pensioni, il Pd accusa Rifondazione di voler far cadere il governo sempre sulle pensioni, sulla giustizia il sospettato di volere la crisi è Di Pietro mentre il partito di Di Pietro sospetta che sia il partito democratico a volere che Prodi cada su una riforma considerata ‘troppo tenera’ con i magistrati”. Il caos è totale e l’ingovernabilità massima, ogni giorno può essere l’ultimo e se non lo è (e per poco non lo è stato ieri, tra le incredibili gazzarre che hanno fatto scendere il Senato ancora più in basso nella volgarità del dibattito parlamentare) è come se lo fosse per un governo che ricorda quel personaggio della filastrocca che “andava combattendo ed era morto”. E poco importa che a dargli il colpo di grazia, tra una settimana o tra un mese, sia una vera e propria crisi parlamentare oppure il voto contrario di un Andreotti, uno Stanzione o un De Gregorio qualunque.
L’antipolitica
Negli ultimi mesi del vecchio regime era apparso un libro di Cesare Salvi che noi avevamo giudicato uno dei più bei saggi sulla politica degli ultimi venti anni: in cui erano denunciati e documentati gli extracosti che un sistema politico clientelare e pletorico impone al paese. Ci aspettavamo che il centrosinistra mettesse le indicazioni che venivano da questo libro al centro della sua agenda di governo, ma a tutt’altro pensava Prodi, a tutt’altro pensavano Bertinotti e Marini e lo stesso Presidente Napolitano, è c’è voluta una campagna della grande stampa per far capire a questi personaggi che la gente è stanca di lavorare e tassarsi per sostenere le spese di una corte faraonica e autoreferenziale che sembra non capire che c’è un limite di decenza nello spendere soldi altrui. E che retribuire adeguatamente i parlamentari è cosa giusta ma non lo è certo dargli il taglio di capelli e la permanente gratis e fargli pagare nove euro un pasto che ne costa novanta. Ma c’è da attendersi che le misure promesse – già di per sé insufficienti – lasceranno il tempo che trovano, e che ancora per altri vent’anni dovremo tenerci il bicameralismo perfetto insieme alla classe politica più costosa e inefficiente del mondo civilizzato.
Così, in un clima da ultimi giorni di Pompei – e oggi si è aggiunta la notizia, da non sottovalutare, delle indagini su Prodi della Procura di Catanzaro – si stanno consumando gli ultimi soprassalti di questo governo e, forse (almeno finché i nostri deputati non avranno maturato il diritto a pensione, che diamine!) di questa legislatura.
La legge elettorale è importante, ma il problema è politico
Sono in molti a sostenere, non senza qualche ragione (e tra questi anche il nostro collaboratore e amico Gino Nobili) che i problemi che abbiamo dipendono dalla legge elettorale – nel caso di specie, la famosa “porcata” di Calderoli – e che una riforma di questa legge potrebbe contribuire ad avviare il nostro sistema politico su binari più solidi.
Non c’è dubbio che sia così, e certo se al Senato il centrosinistra avesse potuto godere di una maggioranza analoga a quella della Camera la navigazione del governo sarebbe stata molto più tranquilla.
Ma anche con una maggioranza più ampia le difficoltà sarebbero rimaste, perché il problema del centrosinistra non è di numeri ma di linea politica. Le diversità di impostazioni tra centro sinistra moderato-riformista e sinistra massimalista sono infatti sono così pesanti e numerose da rendere quasi impossibile qualunque mediazione che non sia volgarmente al ribasso, un rinvio continuo, una rinuncia a scegliere per non mettere in pericolo la sopravvivenza del governo.
Il fatto è che il centrosinistra senza la sinistra radicale non vince, con la sinistra radicale non governa: questa è l’amara verità che emerge dall’esperienza di questo inutile anno di governo. E Prodi, che in campagna elettorale gonfiava il petto proclamando “il premier sono io, e la politica della coalizione la decido io” ha dimostrato la sua pochezza riuscendo a decidere solo i rinvii di decidere. Perfino nei particolari secondari: nel dibattito televisivo pre-elettorale (ne abbiamo parlato nel nostro libro sull’imbarbarimento del linguaggio politico) ci aveva messo la faccia proclamando che ci avrebbe pensato lui a realizzare finalmente dopo anni di discussioni inutili il rigassificatore di Brindisi, e infatti questo non si è fatto e non si farà, così quanto a indipendenza energetica continuiamo ad essere agli ultimi posti in Europa (e non a caso da noi l’energia costa il doppio della media europea), mentre il geniale “Modello Campania” nel trattamento dei rifiuti (“spargi l’immondizia sui marciapiedi e bruciala”), affermatosi grazie al congiunto operare della camorra e dei talebani dell’ambientalismo, rischia di estendersi presto ad altre regioni.
Veltronismo, ma per che farne?
In questo panorama l’autocandidatura di Veltroni a leader del partito democratico è stata salutata da tante parti come un grande fatto nuovo, capace di vitalizzare sia il partito, sia il governo. A nostro avviso è però dubbio che Veltroni possa portare qualcosa di nuovo e di utile se dovesse esprimere nel partito – e, domani, al governo al posto di Prodi – la sua innata capacità di mediazione. Quella che serve in questa fase è infatti la capacità di decisione, non quella di mediazione.
Di quest’ultima Veltroni ne ha sin troppa, maestro com’è nel fare le cose a metà e dare ragione a tutti. Uno che si proclama per il referendum elettorale però non lo firma; nella polemica tra Prodi e Fassino ai tempi dello scandalo Unipol se ne uscì con un “Non posso non dare ragione a Piero però capisco le ragioni di Romano”; sta dalla parte dei romani che aspettano un’ora per un taxi però si preoccupa di non mettere in difficoltà i tassisti. Per non parlare poi del suo pessimo modo – tutto illusionismo dell’effimero – di governare la città.
La scelta di Veltroni, se una giustificazione deve avere, non sta certo nel sostituire un mediatore inconcludente a un altro mediatore inconcludente. Sta, probabilmente – e qui si capiscono le puntate fatte su di lui dai cosiddetti poteri forti – nel fare di Veltroni il playmaker di un nuovo scenario politico, il demiurgo di uno schieramento in cui la diaspora democristiana dei Casini e dei Mastella, con un Follini a fare da apripista, si riunisca con i democristiani vecchi e nuovi della Margherita, dai Rutelli ai Bordon ai Fioroni, per creare uno schieramento di centro-sinistra aperto a un nuovo, meno conflittuale rapporto con l’altro polo (e non a caso Veltroni nel suo discorso al Lingotto non ha mancato di dire – cosa del tutto nuova per le scene dei Ds – che dopotutto Berlusconi accanto al male qualche cosa di buono ha pure fatto).
Un nuovo scenario in cui, amputate le ali, il sistema politico trovi quell’ubi consistam, quel “centro di gravità permanente” di cui cantava, un po’ di anni fa, un ancor giovane Battiato. Così, si spera, gente come Cento, come Caruso, come l’ex terrorista D’Elia potrebbero tornare alle loro precedenti, onorevoli occupazioni, l’uno a stendere striscioni in curva sud, l’altro a occupare le sedi Nato, il terzo a difendere i suoi amici Caini. E la sinistra antagonista da un lato e i leghisti dall’altro farebbero la loro giusta parte, di opposizione alternativa – parte nella quale hanno certamente una funzione utile ed essenziale – e non una parte che assolutamente non è e non dovrebbe essere la loro, quella di governo.
E’ solo in questa chiave, in definitiva, che si giustifica e può avere un senso l’operazione Veltroni. Non resta a questo punto che dire “Se son rose, fioriranno”. Ma se fioriranno, tutto saranno tranne che rosse.
Per parte nostra seguiremo questi sviluppi con lo spirito di indipendenza di sempre ma con sempre minori motivazioni. Avevamo attaccato con forza e volentieri Berlusconi e i suoi, sperando che dopo di loro le cose sarebbero cambiate. Abbiamo, a malincuore, cominciato a contestare Prodi e i suoi, mano a mano che il governo del centrosinistra produceva il peggio di sé. Ma ci si stanca di sparare sulla Croce Rossa. Speriamo ci sarà perdonato se nei prossimi mesi una redazione sempre più disamorata sarà meno attenta e meno presente del solito.