(27.11.08) Epigoni del “bis-pensiero” alla Orwell, sinistra e destra in materia fiscale hanno sempre predicato bene e razzolato male: a parole denunciando l'ammontare mostruoso dell'evasione (non meno di 200 miliardi di euro/anno) determinato dalle fraudolente dichiarazioni dei redditi; nei fatti, utilizzando queste stesse dichiarazioni come metro per distribuire risorse. Le quali, nominalmente “a favore dei bassi redditi”, andavano a finire in buona parte nelle tasche degli evasori. Un errore fatto dal governo Prodi, che ora il governo Berlusconi sembra apprestarsi a ripetere. Un rimedio invece ci sarebbe: utilizzare come metro per la distribuzione di risorse non più le dichiarazioni Irpef ma quelle Isee, il cosiddetto “riccometro”, modulato su scala familiare e basato sulla considerazione non solo del reddito ma anche delle risorse finanziarie e patrimoniali. Uno strumento che consentirebbe redistribuzioni sicuramente più eque, nonostante i punti deboli che presenta e che richiederebbero opportuni miglioramenti. Ma anche se costituisce pur sempre un progresso, anche l'Isee rischierebbe di rimanere un'arma spuntata se non si predisponessero gli indispensabili controlli. Se ne parla nel Capitolo terzo – dovuto a Corrado Pollastri – del recente Rapporto Isae su “Politiche pubbliche e redistribuzione”, della cui Introduzione riportiamo ampi stralci.
Va osservato innanzitutto che all’Isee (indicatore di situazione economica equivalente), ideato in un’ottica di superamento delle discriminazioni categoriali e di unificazione dei criteri di selezione per l’accesso alle prestazioni, è stato attribuito anche un ruolo di regolazione del razionamento, o di modulazione delle tariffe, di quei servizi che si riteneva di non poter più garantire gratuitamente e universalmente, nell’ambito di una politica di ridefinizione del welfare imposta dall’emergenza
di ripristinare gli equilibri del bilancio pubblico. Proprio questa seconda funzione rendeva lo strumento particolarmente delicato, e si voleva quindi che esso fornisse una misura del benessere più accurata del reddito dichiarato ai fini fiscali, tenendo conto della dimensione familiare, delle economie di scala che si generano nella famiglia e dell’effettiva condizione economica. Si percepiva infatti come cruciale conquistare il consenso sulle politiche redistributive rafforzando l’efficienza del processo di targeting.
A tal fine il legislatore ha stabilito di determinare l’ISEE a livello familiare come combinazione lineare di due componenti, quella reddituale, integrata dalle informazioni su tutte le entrate annuali, e quella patrimoniale, considerata nella misura del 20%. Alla base della scelta di un coefficiente elevato era l’ipotesi che un rapporto molto alto tra patrimonio e reddito del nucleo familiare fosse un sintomo di evasione/elusione fiscale, e si faceva assegnamento sull'effetto di deterrenza indotto soprattutto dall'obbligo di indicare la consistenza del patrimonio mobiliare.
Al contempo, il patrimonio nell’ISEE può essere inteso come un elemento di benessere – anche al di là del suo rendimento – di cui tenere conto nella definizione della condizione economica relativa dei nuclei familiari. Se nel caso delle politiche di contrasto alla povertà si può supporre che il patrimonio garantisca maggiori capacità di autosostentamento, e si può arrivare a fornire un sostegno pubblico solo dopo che sia stata perseguita la strada della liquidazione delle attività – salvo l'abitazione principale -, in quello della modulazione delle compartecipazioni sembrerebbe indispensabile applicare una più precisa “visione distributiva” alla misurazione del benessere, tale da poter discriminare, anche nel continuo, tra situazioni familiari diverse. Di fatto, nell’ISEE si determina una sorta di equivalenza tra patrimonio e reddito, definita dal rapporto tra il coefficiente del reddito (unitario) e quello del patrimonio.
L'effettivo operare della componente patrimoniale, sia nel minimizzare il rischio di falsi positivi (soggetti che ottengono le agevolazioni senza averne diritto), sia nelle sue implicazioni più generali sul versante dell'equità, può essere analizzato innanzitutto sulla banca dati delle dichiarazioni effettivamente presentate (Dsu). Emerge che meno del 4% dei richiedenti rivela il godimento di un patrimonio mobiliare (lo 0,5% nel Mezzogiorno), e questo pesa solo per l'1% del complesso delle componenti dell'indicatore.
di ripristinare gli equilibri del bilancio pubblico. Proprio questa seconda funzione rendeva lo strumento particolarmente delicato, e si voleva quindi che esso fornisse una misura del benessere più accurata del reddito dichiarato ai fini fiscali, tenendo conto della dimensione familiare, delle economie di scala che si generano nella famiglia e dell’effettiva condizione economica. Si percepiva infatti come cruciale conquistare il consenso sulle politiche redistributive rafforzando l’efficienza del processo di targeting.
A tal fine il legislatore ha stabilito di determinare l’ISEE a livello familiare come combinazione lineare di due componenti, quella reddituale, integrata dalle informazioni su tutte le entrate annuali, e quella patrimoniale, considerata nella misura del 20%. Alla base della scelta di un coefficiente elevato era l’ipotesi che un rapporto molto alto tra patrimonio e reddito del nucleo familiare fosse un sintomo di evasione/elusione fiscale, e si faceva assegnamento sull'effetto di deterrenza indotto soprattutto dall'obbligo di indicare la consistenza del patrimonio mobiliare.
Al contempo, il patrimonio nell’ISEE può essere inteso come un elemento di benessere – anche al di là del suo rendimento – di cui tenere conto nella definizione della condizione economica relativa dei nuclei familiari. Se nel caso delle politiche di contrasto alla povertà si può supporre che il patrimonio garantisca maggiori capacità di autosostentamento, e si può arrivare a fornire un sostegno pubblico solo dopo che sia stata perseguita la strada della liquidazione delle attività – salvo l'abitazione principale -, in quello della modulazione delle compartecipazioni sembrerebbe indispensabile applicare una più precisa “visione distributiva” alla misurazione del benessere, tale da poter discriminare, anche nel continuo, tra situazioni familiari diverse. Di fatto, nell’ISEE si determina una sorta di equivalenza tra patrimonio e reddito, definita dal rapporto tra il coefficiente del reddito (unitario) e quello del patrimonio.
L'effettivo operare della componente patrimoniale, sia nel minimizzare il rischio di falsi positivi (soggetti che ottengono le agevolazioni senza averne diritto), sia nelle sue implicazioni più generali sul versante dell'equità, può essere analizzato innanzitutto sulla banca dati delle dichiarazioni effettivamente presentate (Dsu). Emerge che meno del 4% dei richiedenti rivela il godimento di un patrimonio mobiliare (lo 0,5% nel Mezzogiorno), e questo pesa solo per l'1% del complesso delle componenti dell'indicatore.
Uno strumento efficace ma che presenta ancora lacune
La presa in conto del patrimonio (sia mobiliare che immobiliare) effettivamente penalizza coloro che hanno maggiore possibilità di occultare al fisco parte del proprio reddito (lavoratori indipendenti), ma tale penalizzazione appare di modesta entità. Stando ad un esercizio controfattuale riportato nel rapporto ISEE del 2006, che simula una prestazione indirizzata al 50% delle famiglie con Dsu, la presenza della componente patrimoniale determinerebbe una riduzione della quota dei lavoratori indipendenti beneficiari di circa il 10 per cento.
Per mezzo di micro-simulazioni basate sull’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, dopo aver corretto l'informazione relativa alle attività finanziarie delle famiglie per riprodurre le consistenze patrimoniali aggregate riportate nei conti finanziari, e quelle sui redditi per ricondurle alle risultanze dell’anagrafe tributaria, verifichiamo se l’ipotetica dichiarazione dei patrimoni effettivamente detenuti sarebbe in grado di correggere i dati delle dichiarazioni dei redditi in misura maggiore. Ipotizzando una soglia di ingressi pari al 20% delle famiglie italiane, si confrontano i beneficiari selezionati dall’ISEE con quelli individuati dalla sola componente reddituale (senza franchigie): con il primo metro l'incidenza di agevolati appartenenti a nuclei con capofamiglia indipendente si riduce del 60% circa, calando dal 12,3% al 4,8 per cento.
Malgrado i due esercizi non siano direttamente confrontabili, essi evidenziano come il potenziale effetto correttivo del patrimonio sia neutralizzato per buona parte dalla sottodichiarazione dello stesso, e in particolare di quello mobiliare. Si badi che, al contempo, l’effetto di riordinamento esercitato dall’ISEE anche tra soggetti la cui informazione sul reddito è più affidabile risulta tutt'altro che trascurabile: tra gli agevolati sono sostituiti circa il 20% dei nuclei con capofamiglia pensionato e il 23% di quelli con capofamiglia dipendente.
Ed è proprio l’ampia influenza che il patrimonio potrebbe esercitare sulle condizioni di accesso di tutti, evasori e non evasori, che suggerisce la necessità di approfondire le connessioni tra possesso di patrimonio e benessere. Si cerca dunque di individuare una misura composita del benessere tale da rendere meno arbitraria la scelta di un’equivalenza tra le due componenti dell’ISEE. Si prova ad inserire il reddito e il patrimonio (al lordo e al netto delle franchigie) come variabili esplicative di una misura del benessere derivata da informazioni sul consumo, in particolare quello alimentare (curva di Engel).
La banca dati utilizzata è ancora l’Indagine della Banca d’Italia, con il patrimonio corretto e il reddito dichiarato. I risultati della stima, cioè i parametri delle due componenti, rappresentano una valutazione empirica, sia pure preliminare, del loro peso relativo. Il coefficiente del reddito risulta significativo e col segno atteso, e la sua stima è robusta.
Inserendo la componente patrimoniale, al di là delle difficoltà e dei limiti derivanti essenzialmente
dalla specificazione logaritmica della curva di Engel, che richiederanno un ulteriore approfondimento, si osserva che il coefficiente del patrimonio, anche al netto delle franchigie, assume un valore limitato (5,9%) e statisticamente inferiore al coefficiente ISEE (20%), segnalando la probabile sopravvalutazione del peso della componente patrimoniale nell’ISEE.
Per mezzo di micro-simulazioni basate sull’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, dopo aver corretto l'informazione relativa alle attività finanziarie delle famiglie per riprodurre le consistenze patrimoniali aggregate riportate nei conti finanziari, e quelle sui redditi per ricondurle alle risultanze dell’anagrafe tributaria, verifichiamo se l’ipotetica dichiarazione dei patrimoni effettivamente detenuti sarebbe in grado di correggere i dati delle dichiarazioni dei redditi in misura maggiore. Ipotizzando una soglia di ingressi pari al 20% delle famiglie italiane, si confrontano i beneficiari selezionati dall’ISEE con quelli individuati dalla sola componente reddituale (senza franchigie): con il primo metro l'incidenza di agevolati appartenenti a nuclei con capofamiglia indipendente si riduce del 60% circa, calando dal 12,3% al 4,8 per cento.
Malgrado i due esercizi non siano direttamente confrontabili, essi evidenziano come il potenziale effetto correttivo del patrimonio sia neutralizzato per buona parte dalla sottodichiarazione dello stesso, e in particolare di quello mobiliare. Si badi che, al contempo, l’effetto di riordinamento esercitato dall’ISEE anche tra soggetti la cui informazione sul reddito è più affidabile risulta tutt'altro che trascurabile: tra gli agevolati sono sostituiti circa il 20% dei nuclei con capofamiglia pensionato e il 23% di quelli con capofamiglia dipendente.
Ed è proprio l’ampia influenza che il patrimonio potrebbe esercitare sulle condizioni di accesso di tutti, evasori e non evasori, che suggerisce la necessità di approfondire le connessioni tra possesso di patrimonio e benessere. Si cerca dunque di individuare una misura composita del benessere tale da rendere meno arbitraria la scelta di un’equivalenza tra le due componenti dell’ISEE. Si prova ad inserire il reddito e il patrimonio (al lordo e al netto delle franchigie) come variabili esplicative di una misura del benessere derivata da informazioni sul consumo, in particolare quello alimentare (curva di Engel).
La banca dati utilizzata è ancora l’Indagine della Banca d’Italia, con il patrimonio corretto e il reddito dichiarato. I risultati della stima, cioè i parametri delle due componenti, rappresentano una valutazione empirica, sia pure preliminare, del loro peso relativo. Il coefficiente del reddito risulta significativo e col segno atteso, e la sua stima è robusta.
Inserendo la componente patrimoniale, al di là delle difficoltà e dei limiti derivanti essenzialmente
dalla specificazione logaritmica della curva di Engel, che richiederanno un ulteriore approfondimento, si osserva che il coefficiente del patrimonio, anche al netto delle franchigie, assume un valore limitato (5,9%) e statisticamente inferiore al coefficiente ISEE (20%), segnalando la probabile sopravvalutazione del peso della componente patrimoniale nell’ISEE.
In quali direzioni operare per migliorarlo
Il dibattito sulle possibili revisione dell’ISEE ha toccato diversi aspetti, oltre al ruolo patrimonio. Un primo gruppo di correttivi riguarda ipotesi di intervento motivate da obiettivi di equità, che sono incentrate sulla definizione di reddito, sulle franchigie e sulla scala di equivalenza.
Il riferimento al reddito complessivo a fini IRPEF – che solo per i titolari di redditi da lavoro autonomo e impresa incorpora anche la contribuzione, con una penalizzazione di circa il 20%, e non comprende i redditi esenti, i quali pure contribuiscono al livello di benessere della famiglia – rappresenta un altro strumento molto grezzo per ridurre “in media” l’accesso a chi non ha sostituto di imposta, ridimensionando comunque la capacità di discriminazione sui redditi bassi (circa il 13% dei nuclei ha l’indicatore pari a zero).
E’ piuttosto condivisa l’ipotesi di passare ad una misura di reddito disponibile, che a nostro avviso potrebbe comprendere anche le prestazioni sociali soggette a means testing di cui già si beneficia per evitare fenomeni di trappola della povertà.
Quanto alle franchigie, queste sono molto alte, anche perché alto è il coefficiente di valorizzazione del patrimonio, e ciò riduce la capacità selettiva dell’ISEE proprio nelle fasce basse di reddito, dove sarebbe importante che l’indicatore fosse molto sensibile.
Esse contribuiscono ad azzerare la componente patrimoniale per circa il 60% delle dichiarazioni. Se si abbassasse il coefficiente di valorizzazione del patrimonio, a maggior ragione si potrebbero ridurre le franchigie (o lasciare alle singole amministrazioni la possibilità di abbassarle).
Infine, sono state avanzati alcuni rilievi alla scala di equivalenza utilizzata nell’ISEE, i cui coefficienti sono determinati non tenendo conto delle differenze nei comportamenti di consumo per classi di età. Sarebbe inoltre auspicabile sostituire le maggiorazioni della scala di equivalenza, il cui effetto è maggiore quanto più alto è l’Ise (non equivalente), con agevolazioni in cifra fissa (deduzioni).
Potenziare i controlli, oggi quasi inesistenti
Il secondo gruppo di correttivi concerne l’aspetto della gestione amministrativa dell’ISEE, e in particolare il versante dei controlli, dove si riscontrano forti carenze: gli enti erogatori hanno potuto effettuare esclusivamente riscontri formali di coerenza tra le informazioni già in possesso della P.A. e i valori dichiarati, mentre la verifica sostanziale delle informazioni, demandata alla Guardia di Finanza, è rimasta limitata (il 2 per mille nel 2003). La soluzione del problema più spinoso, quello dei controlli, potrebbe oggi diventare più vicina, data l’operatività dell’Anagrafe dei Conti Bancari e dato il coinvolgimento diretto dell’Agenzia delle Entrate sulla verifica di rispondenza delle informazioni fornite nelle Dsu con i dati fiscali presenti nell’anagrafe tributaria. E’ noto che l’Anagrafe dei Conti contiene i dati relativi alla titolarità dei rapporti, non le indicazioni sul contenuto degli stessi, ma ciò è sufficiente a consentire di contattare esclusivamente gli istituti
bancari e finanziari che hanno un rapporto con il contribuente posto sotto osservazione, riducendo drasticamente il costo dei controlli. Il controllo formale assumerebbe in questo caso una valenza sostanziale: il riscontro di discrepanze tra l’autodichiarazione e il dato effettivo farebbe scattare la sospensione della fruizione del servizio e l’avvio delle procedure di sanzione. E’ vero che questi controlli non possono essere sistematici o a campione, ma sono condizionati a specifiche procedure di accertamento mirate sul singolo contribuente, e questo potrebbe inibire l’applicazione di una estesa campagna di controlli.
Si potrebbe tuttavia riflettere sull’ipotesi di considerare tutti i soggetti che presentano dichiarazioni Dsu come passibili di accertamento fiscale. Inoltre, dal momento che oggi le dichiarazioni transitano presso l’Agenzia delle Entrate, potrebbero essere utilizzate le informazioni del cosiddetto “redditometro” per individuare i casi più problematici.
Laddove i controlli venissero rafforzati, a maggior ragione sarebbe plausibile recepire le preoccupazioni sul peso eccessivo del patrimonio e delle relative franchigie e sul reddito di riferimento.
Il riferimento al reddito complessivo a fini IRPEF – che solo per i titolari di redditi da lavoro autonomo e impresa incorpora anche la contribuzione, con una penalizzazione di circa il 20%, e non comprende i redditi esenti, i quali pure contribuiscono al livello di benessere della famiglia – rappresenta un altro strumento molto grezzo per ridurre “in media” l’accesso a chi non ha sostituto di imposta, ridimensionando comunque la capacità di discriminazione sui redditi bassi (circa il 13% dei nuclei ha l’indicatore pari a zero).
E’ piuttosto condivisa l’ipotesi di passare ad una misura di reddito disponibile, che a nostro avviso potrebbe comprendere anche le prestazioni sociali soggette a means testing di cui già si beneficia per evitare fenomeni di trappola della povertà.
Quanto alle franchigie, queste sono molto alte, anche perché alto è il coefficiente di valorizzazione del patrimonio, e ciò riduce la capacità selettiva dell’ISEE proprio nelle fasce basse di reddito, dove sarebbe importante che l’indicatore fosse molto sensibile.
Esse contribuiscono ad azzerare la componente patrimoniale per circa il 60% delle dichiarazioni. Se si abbassasse il coefficiente di valorizzazione del patrimonio, a maggior ragione si potrebbero ridurre le franchigie (o lasciare alle singole amministrazioni la possibilità di abbassarle).
Infine, sono state avanzati alcuni rilievi alla scala di equivalenza utilizzata nell’ISEE, i cui coefficienti sono determinati non tenendo conto delle differenze nei comportamenti di consumo per classi di età. Sarebbe inoltre auspicabile sostituire le maggiorazioni della scala di equivalenza, il cui effetto è maggiore quanto più alto è l’Ise (non equivalente), con agevolazioni in cifra fissa (deduzioni).
Potenziare i controlli, oggi quasi inesistenti
Il secondo gruppo di correttivi concerne l’aspetto della gestione amministrativa dell’ISEE, e in particolare il versante dei controlli, dove si riscontrano forti carenze: gli enti erogatori hanno potuto effettuare esclusivamente riscontri formali di coerenza tra le informazioni già in possesso della P.A. e i valori dichiarati, mentre la verifica sostanziale delle informazioni, demandata alla Guardia di Finanza, è rimasta limitata (il 2 per mille nel 2003). La soluzione del problema più spinoso, quello dei controlli, potrebbe oggi diventare più vicina, data l’operatività dell’Anagrafe dei Conti Bancari e dato il coinvolgimento diretto dell’Agenzia delle Entrate sulla verifica di rispondenza delle informazioni fornite nelle Dsu con i dati fiscali presenti nell’anagrafe tributaria. E’ noto che l’Anagrafe dei Conti contiene i dati relativi alla titolarità dei rapporti, non le indicazioni sul contenuto degli stessi, ma ciò è sufficiente a consentire di contattare esclusivamente gli istituti
bancari e finanziari che hanno un rapporto con il contribuente posto sotto osservazione, riducendo drasticamente il costo dei controlli. Il controllo formale assumerebbe in questo caso una valenza sostanziale: il riscontro di discrepanze tra l’autodichiarazione e il dato effettivo farebbe scattare la sospensione della fruizione del servizio e l’avvio delle procedure di sanzione. E’ vero che questi controlli non possono essere sistematici o a campione, ma sono condizionati a specifiche procedure di accertamento mirate sul singolo contribuente, e questo potrebbe inibire l’applicazione di una estesa campagna di controlli.
Si potrebbe tuttavia riflettere sull’ipotesi di considerare tutti i soggetti che presentano dichiarazioni Dsu come passibili di accertamento fiscale. Inoltre, dal momento che oggi le dichiarazioni transitano presso l’Agenzia delle Entrate, potrebbero essere utilizzate le informazioni del cosiddetto “redditometro” per individuare i casi più problematici.
Laddove i controlli venissero rafforzati, a maggior ragione sarebbe plausibile recepire le preoccupazioni sul peso eccessivo del patrimonio e delle relative franchigie e sul reddito di riferimento.