Mascheramenti e ossimori. Il trionfo del mastellismo
In questi ultimi mesi il nostro sistema politico sembra avvitarsi su se stesso, a causa dell’eccesso di esternazioni dei suoi protagonisti. Per i quali ormai non è importante «fare» ma «comunicare», non conta più «essere» ma «essere visti».
Pesano soprattutto le esternazioni estemporanee su temi di rilevanza bioetica che provocano contrasti con il Vaticano e con la stessa ala cattolica (e ultracattolica) del cen-trosinistra, le divergenze sulle missioni militari e le polemiche tra i ministri dei Trasporti, dell’Ambiente e delle Infrastrutture, dalle quali emerge una confusione totale sul da farsi in materia di grandi opere. Grazie a questi contrasti quotidiani l’avvio del nuovo governo, anziché venire incontro alle fiduciose aspettative del decano del giornalismo Enzo Biagi (è finita l’ora del dilettante) fa pensare a «Prova d’orchestra» di Fellini. E non a caso l’ex prefetto di Milano Ferrante confesserà che una buona parte dei voti da lui persi nell’elezione a sindaco saranno colpa dei «ministri esternatori».
Ai primi di giugno Prodi, rispondendo a «Civiltà Cattolica» che aveva pubblicato una nota polemica, assicura che il governo sta «lavorando per accordare gli strumenti». E chiama i ministri a conclave: «serve collegialità, non andiamo in ordine sparso». Ma il seminario di San Martino in Campo, che si terrà di lì a pochi giorni proprio con l’obiettivo di dare un «gioco di squadra» alla compagine di governo e «individuare uno stile di comunicazione il più possibile uniforme e condiviso» non riuscirà a garantire un po’ di coerenza alla comunicazione di ministri, sottosegretari e segretari dei partiti della maggioranza (l’incontro rimarrà memorabile più che altro per l’inconsueto impegno del premier – «Dobbiamo avere il coraggio di stupire gli italiani» – mantenuto puntualmente con la nomina di tre nuovi sottosegretari: quello Prodi sarà così il governo più numeroso della storia della Repubblica). E altrettanto inutile si rivela un altro «conclave», come ampollosamente lo chiama la stampa, in cui si incontrano i portavoce dei ministri il 12 giugno per cercare di tamponare le esternazioni polemiche e focalizzare la comunicazione sui provvedimenti concreti anziché sugli annunci. Così i richiami del premier (che a metà luglio aveva scherzato allegramente sul pericolo di governare con una maggioranza tanto precaria: «C’è più thrilling, più avventura. È più sexy») si moltiplicheranno come le grida spagnolesche. A fine agosto invita a «ridurre il chiacchiericcio» sulle misure della Finanziaria, il 6 settembre, intervenendo alla festa del Pdci, dice basta ai «ministri vociferanti»
Per superare il rumore delle esternazioni e bucare il muro dei media la politica imita la pubblicità: cerca l’insolito, ricorre al mascheramento e all’ambulantato. Ecco così il neo-ministro della Giustizia Mastella che prima ancora di discutere l’indulto in Consiglio dei ministri va ad annunciarlo a Regina Coeli insieme ad Andreotti, ricevendone in cambio acclamazioni da stadio. I detenuti, riferiscono i cronisti, inneggiano con entusiasmo al senatore a vita («Giu-lio, Giu-lio») «che sentono uno di loro». Il ministro della Giustizia canterà «O sole mio» insieme a loro.
Per rafforzare la propria identità occorre moltiplicarla, mascherarla, crearsi degli avatar che aiutino ad uscire da un ruolo in cui si starebbe troppo stretti. Ecco ancora Mastella che prospetta l’am-nistia per gli indagati di Calciopoli in caso di vittoria ai Mondiali, e a chi obietta che la proposta non è consona a un ministro della Giustizia risponde: «Che c’entra? Io parlavo da tifoso». E sempre da tifoso, e non certo da ministro della Giustizia, ammira Berlusconi per gli attacchi fatti ai giudici di Calciopoli: sono serviti, commenta, a spaventarli e a ridurre le pene a carico del Milan (intervista al «Corriere» dell’11 luglio 2006). Ecco il ministro delle Infrastrutture Di Pietro che per esprimere l’opposizione all’indulto si maschera da girotondino e manifesta davanti al Parlamento gridando slogan antigovernativi, mentre il capo dell’opposizione festeggia a sorpresa il compleanno della moglie mascherandosi da ballerino «gnaoua» in un ristorante di Marrakesh. «Ma non è vero che ho ballato», spiegherà poi. «Ho solo camminato verso di lei con passo ieratico».
Di pari passo con il mascheramento si diffonde un nuovo costume politico che potremmo chiamare mastellismo: un genere di trasformismo da non confondere con il classico trasformismo che dal-l’epoca di Giolitti ha inquinato tanta parte della politica italiana. Con il trasformismo, fenomeno sempre attuale, si cambia casacca passando dal centro alla destra o alla sinistra o viceversa, spesso come reazione a qualche sgarbo di tipo clientelare o elettorale. Ultimi esempi, l’ideologo di An e vice presidente del Senato Fisichella, che entrato in conflitto con i suoi a proposito della devolution viene imbarcato in fretta e furia nelle liste del centrosinistra e l’ex ministro della Dc Cirino Pomicino, che va e viene tra Udc, Udeur e Nuova Dc e che al momento in cui scriviamo è dato di nuovo in viaggio verso l’Udeur. Autentica professionista del cabotaggio tra i meandri della politica è la «casalinga» Rossi Gasparrini, ultimamente in movimento da Di Pietro a De Gregorio. Ma in un quadro politico così balcanizzato c’è da aspettarsi che gli episodi di trasformismo si moltiplichino al di là di ogni precedente limite.
Con il mastellismo non si espatria, si rimane nel proprio schieramento ma sempre con i piedi sul confine e le valigie in mano. «Non volete darmi quello che chiedo? Non fate quello che dico? Ebbene, io resto con voi, però non potete aspettarvi che sia un alleato disciplinato. Vi darò il mio appoggio ma sarà tutt’al più un appoggio esterno, condizionato». Ci si colloca in questo modo in una posizione borderline sul mercato politico, una posizione che dà potere e consente di ottenere risultati – tipo un importante posto da ministro, la presidenza di una commissione della Camera o magari, perché no, la stessa presidenza della Camera – cui altrimenti non si avrebbe avuto titolo.
Il vero mastellismo doc non è naturalmente quello una tantum ma quello permanente che abita la no man’s land e si spinge fino al confine senza mai varcarlo completamente in modo che il pericolo di abbandono, seppure improbabile e però sempre possibile, possa dar luogo a una negoziazione continua e quindi a successive lucrose plusvalenze politiche. Esempi di queste identità in bilico il senatore eletto tra gli italiani all’estero Pallaro, che di volta in volta contratta il suo voto con il governo o con l’opposizione, il senatore De Gregorio dell’Italia dei valori, eletto presidente della Commissione Difesa dall’opposizione e poi rimasto anche se solo nominalmente con Di Pietro – mentre questo libro va in stampa sembra finalmente aver deciso di fondare un’aggregazione «politica» tutta sua – e gli otto o sedici senatori che fanno parte della maggioranza ma rivendicano il loro diritto di votare in modo autonomo sui temi caldi come l’impegno militare in Irak o in Afghanistan.
Giocato fino in fondo il mastellismo – che ovviamente non nasce con Mastella ma trova in lui, grazie alle sue superiori doti, il caposcuola e l’interprete più autentico – si esprime nella capacità di comunicare al meglio le proprie diverse identità, di recitare allo stesso tempo più ruoli in contraddizione tra loro, di essere insieme governo e opposizione, governante e governato, contestatore e collaboratore, ministro e tifoso, e magari tifoso della Juve ma però anche della Roma e perché no della Lazio per essere amico di tutti e non scontentare nessuno.
L’Udeur del resto, per esplicita definizione del suo leader-fon-datore, è «un partito prepolitico, basato sulle amicizie personali» . Il 3 settembre 2006, alla festa annuale del partito, la paragona alla forza Onu nel Libano: «Siamo una forza di confine, non spariamo contro chi sta dall’altra parte ma evitiamo anche che ci sia un’offen-siva dei nostri contro gli avversari» (e per questo dichiara di opporsi fermamente a una legge sul conflitto di interessi che danneggi l’ex premier Berlusconi ).
Nell’era della liquidità universale teorizzata dal sociologo Zygmunt Bauman anche le identità politiche sono liquide, prodotto di una cultura ibrida che costruisce la propria immagine «nella libertà da identità assegnate e statiche, nella licenza di sfidare e ignorare quei tipi di marcatori, etichette o stigmi culturali che circoscrivono i movimenti e le scelte degli altri, vincolati a un luogo specifico».
L’esaltazione dell’ossimoro
Disancorato da qualunque vincolo rispetto a specifici luoghi politici il mastellismo richiede dunque saper cantare da tenore ma se del caso anche da soprano, e come gli attori della commedia povera interpretare all’occorrenza tutte le parti, l’attor giovane ma anche il padre nobile e di quando in quando perfino la fanciulla insidiata. Così interpretato il mastellismo è l’esaltazione dell’ossimoro, inaugurato storicamente dal Pci «di lotta e di governo» e oggi diventato la griffe distintiva di una maggioranza dilagante, come il coccodrillo della Lacoste che una volta contrassegnava aristocratici toraci e oggi si vede addosso a un vacanziere su tre nei traghetti per l’Elba.
Ed ecco allora Mastella il quale afferma che l’indulto non è materia di governo ma del Parlamento e poi quando è stato approvato se ne impadronisce («ho vinto»), lo definisce «un successo dello spirito laico» mentre lo dedica (nuovo ossimoro) a Giovanni Paolo II. In omaggio alla par condicio, dopo l’approvazione del Parlamento si concede una passerella nell’altro carcere romano di Rebibbia per riscuotere le ovazioni dei detenuti: «Sei grande – sei ’n fenomeno – sei er mejo – si’ nu’ babà» – tutti potenziali voti, non si sa mai, da mettere in cassetta se qualcosa andasse storto nel percorso del Governo Prodi. Ed è sempre Mastella a proporre l’Udeur come nuova casa per i transfughi dell’Udc e poi a unirsi con i comunisti nel contestare «da sinistra» l’ipotesi di tagli alla spesa nella Finanziaria o nel prospettare il richiamo delle truppe dall’Afghanistan.
Ecco l’altro ossimoro della candidatura – non a caso fallita – della pacifista dura e pura Lidia Menapace a presidente della Com-missione difesa, e il neopresidente della camera Bertinotti che assiste in prima fila alla parata militare del 2 giugno 2006 ostentando il distintivo della pace all’occhiello (e del resto lo stesso Prodi afferma nell’occasione che la sfilata di soldati e carri armati «è stata molto pacifista quest’anno»). Mentre il ministro Ferrero tiene un comizio a Roma in uno stabile illegalmente occupato del quartiere San Lorenzo.
Ecco Andreotti che con la consueta ironia inventa il modo di votare la fiducia dichiarando la sfiducia. Chiamato per l’ennesima volta a soccorrere il Governo Prodi così commenta: «il provvedimento [sulla missione in Afghanistan] lo voto volentieri, la fiducia spero che un giorno mi venga». E come un ossimoro vivente («craxiano anticraxiano, ulivista antiulivista») è presentato Giuliano Amato da Berlusconi quando vuole sabotare la sua possibile candidatura a presidente della Repubblica. Tra gli ossimori viventi un posto di prima fila spetta ovviamente agli atei bigotti Ferrara e Pera (ne parleremo più avanti).
L’ossimoro entra alla grande anche nelle istituzioni quando il Par-lamento decide a maggioranza, con il voto determinante dei Ds e di Rifondazione comunista, che è lecito nominare un parlamentare condannato per mafia a far parte della Commissione antimafia. Un governo che sta puntando tutto sulla ripresa della crescita, chi porta a collaborare con Padoa Schioppa come sottosegretario all’Econo-mia? Il verde Paolo Cento, sostenitore della «decrescita». A sottosegretario allo Sport verrà chiamato il «leghista di sinistra» Elidio De Paoli, che si affretta a dichiarare: «Sia chiaro che io di sport non mastico niente. Per me tamburello o bocce pari sono».
Ma il dilagare dell’ossimoro si estende ormai al di là dei palazzi della politica: il Consiglio di Stato sentenzia che il crocefisso deve rimanere nelle scuole perché «è un simbolo laico»; il vice direttore di Libero (nome in codice Betulla) prezzolato dal Sismi all’insaputa del suo stesso direttore e ovviamente dei lettori si prenota (apprendiamo dalle intercettazioni) per fare da relatore a un convegno sul-l’etica giornalistica.
L’espandersi del mastellismo non è ovviamente un accidente del caso ma rappresenta – notiamo per inciso – il frutto avvelenato di un sistema elettorale che ha assegnato alla maggioranza un cospicuo premio elettorale alla Camera e glielo ha negato al Senato. Un meccanismo escogitato dalla maggioranza al potere nella scorsa legislatura proprio per assicurare la destabilizzazione del sistema in caso di vittoria dell’opposizione.
Si creano così mini-aggregazioni politiche che si uniscono o si separano caso per caso dalle loro maggioranze, partiti formati da tre-quattro-otto persone o addirittura partiti individuali, che nelle occasioni decisive monetizzano il loro potere di interdizione. Il ruolo di Ghino di Tacco, che il vecchio Craxi interpretava avendo però alle spalle un vero partito, è oggi ricoperto da personaggi che in molti casi, al di là dei segretari di partito che li hanno messi in lista, e dei loro simpatizzanti, hanno alle spalle solo la loro ombra.
Una comunicazione drogata
Questa precarizzazione del quadro politico si riflette, ovviamente, sulla comunicazione. Il politico borderline, il Ghino di Tacco senza partito alle spalle ha bisogno di far sapere che esiste, che conta, che è determinante per indirizzare politicamente e sostenere o viceversa affossare la sua maggioranza. Deve valorizzare, fino ad esasperarla, la propria identità, gridare la propria diversità, altrimenti non si giustificherebbe la sua eventuale defezione. In questo modo può trovare audience nei media, a loro volta sempre interessati a enfatizzare e rilanciare posizioni eterodosse, che fanno scalpore. Modello insuperato di queste strategie comunicative Bertinotti, che eccelle nella ricerca di titoli sui giornali ottenuti mediante uscite ad effetto. Mentre tutta Italia è indignata per la violenta testata spaccacuore di Zidane come reazione a un banale «Portami tua sorella», lui si commuove per il figlio della banlieue e chiede «un applauso per il dramma di Zizou».
In un mondo che privilegia l’insolito non fa notizia il misconosciuto senatore che vota con la maggioranza sulla missione in Afghanistan, ma se costui annuncia la crisi di coscienza si guadagna come minimo un taglio basso in quarta pagina. Al quale faranno seguito richieste di interviste, puntualizzazioni, polemiche, attese preoccupate (cosa farà? davvero voterà contro?). La stampa sa benissimo di essere usata dai politici borderline almeno nella stessa misura in cui fa uso di loro ma sta al gioco perché sa che guadagnerà comunque. Nei casi che abbiamo citato per ultimi naturalmente l’obiettivo è più nobile, non siamo di fronte a un banale mastellismo ma alla rivendicazione di un’identità politica. Ma egualmente il gioco non è a somma zero perché a rimetterci sono la tenuta del governo e la credibilità della coalizione.
Ovviamente quella che si pone in queste situazioni, dal nostro punto di vista, non è una questione morale. Sia il mastellismo ricattatorio come l’utilizzo individuale del potere di interdizione, anche se esercitato per gli scopi più rispettabili come ad esempio per riaffermare gli imperativi del pacifismo senza se e senza ma, non ci interessano per quello che possono significare politicamente e per le conseguenze che possono produrre ma solo come fattore determinante di un nuovo scenario della comunicazione politica.
Il sottoprodotto di questa situazione è infatti una comunicazione più diffusa, più aperta, se vogliamo anche più democratica. Che mentre prima dava spazio solo ai leader si apre sempre più spesso ai comprimari, ai peones. Tutte o quasi le barriere di accesso ai media da parte dei politici minori sono ormai saltate, a condizione, naturalmente, che il messaggio sia quello giusto. Parafrasando il detto di Napoleone, che ogni soldato ha nello zaino il bastone da marescial-lo, si potrebbe dire oggi che ogni peone ha nello zaino il bastone da capo coalizione. O almeno la possibilità di presentarsi momentaneamente come tale. Che la usi poi realmente per sabotare le decisioni e al limite la stessa sopravvivenza della sua maggioranza è, come abbiamo detto, del tutto secondario.
È chiaro che tutto questo ha, come ulteriore conseguenza, un affollamento senza precedenti degli spazi comunicativi. La bulimia comunicativa come nuova forma di dipendenza: recordman assoluto il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio, che come riferisce Stefano Lorenzetto sul «Giornale» ha totalizzato 199 lanci dell’agenzia Ansa nel solo mese di agosto 2006, 1770 dall’inizio dell’anno. Il sovraffollamento verbale non affligge solo la politica: si gonfiano di parole, ad esempio, i faldoni degli uffici giudiziari, in quantità direttamente proporzionale alla lentezza dei processi. Superando il precedente record del caso Andreotti, il processo Tanzi riempie due milioni e mezzo di pagine di verbali, che richiederebbero 23 anni – è stato calcolato – per leggerli tutti.
Ma la sovrapposizione di parole genera la loro inutilità, visto che nella marea di informazioni e dichiarazioni distinguere ciò che è rilevante da ciò che non lo è diventa praticamente impossibile. E allora, se tutti parlano, per farsi sentire occorre gridare. Esasperare il messaggio o il linguaggio. Distinguersi. Uno dei modi per distinguersi, dopo quello di contraddire la linea del proprio schieramento, è raccontarsi, confessarsi. La confessione, spiazzante e possibilmente scioccante, è oggi una delle strategie più utilizzate nella comunicazione politica. Non si esita a comunicare anche a chi non vorrebbe sentirli particolari intimi che un politico di una volta avreb-be a mala pena sussurrato nel segreto di un confessionale. Così Vladimir Luxuria ci racconta l’eccitazione sua e delle sue compagne alla vista della maschia muscolatura dei campioni del mondo e l’emo-zione davanti ai primi piani di Totti: «Quegli occhi blu così penetranti. Ho avuto un mancamento». Rosy Bindi, per solito così misurata, in una intervista a «Chi» si abbandona al piacere liberatorio dell’autogossip e fa sapere a tutti che anche lei «ha conosciuto l’a-more». E Berlusconi, che in fatto di esibizionismo non si nega nulla, durante il suo intervento al meeting di Comunione e liberazione a Rimini il 24 agosto 2006 volta le spalle al palco per mostrare a un pubblico osannante il successo del trapianto di capelli.
Per rafforzare la propria identità occorre rafforzare al massimo la tutela dei simboli più che quella della realtà che rappresentano. A sorpresa il leader del Pdci Diliberto dichiara di volersi astenere sull’indulto perché darebbe un colpo di spugna sul voto di scambio mafioso, e cioè sui reati previsti dall’art. 416-ter del codice penale. Inutile gli si dica che in tutti questi anni una sola persona è stata condannata per questo reato, lo sfigatissimo Vittorio Cecchi Gori. Il 416-ter, spiega Diliberto, va difeso «per ragioni simboliche». Il neo-ministro della giustizia Mastella impegna una non piccola parte delle modeste risorse del suo ministero per far cancellare dalle aule dei tribunali la scritta «La giustizia è amministrata in nome del popolo» che il suo predecessore Castelli aveva ordinato di inserire sotto la classica «La legge è uguale per tutti». Il neo-ministro dell’Istruzione Fioroni, come primo atto di governo, fa recuperare l’aggettivo «pubblica» al nome del suo dicastero.
I simboli naturalmente possono essere assunti in senso negativo, e così anche l’innocua (tranne che per eventuali fastidiosi riflessi sulla digestione serale) coda alla vaccinara diventa, nell’immaginario di un entusiasta neo-deputato leghista, un pericoloso segnale politico. «Finora l’ho evitata», confida l’11 agosto 2006 a un giornalista del «Corriere della sera». «È che sono superstizioso e ho pensato: se cado sulla coda è l’inizio della fine. Sarebbe il primo cedimento alla corruzione romana». Certo il rischio è grande, si comincia con la coda e si finisce col fondare la Banca della Padania.