Echi di cari che non ci sono più ma che continuano a rimbombare nella testa di chi rimane. Ed è così che il dramma della solitudine va in scena al Teatro dei Conciatori dal 22 al 27 novembre con Padre, figlio e Sotto Spirito, monologo di circa un’ora, interpretato da Antonio Tintis, per la regia e drammaturgia di Mauro Santopietro.
In un paese dimenticato di provincia, dove la vita scorre ancora lenta e si può stare sdraiati al Sole a fumare una sigaretta accanto ad una cassetta di pomodori appena raccolti dall’orto, Simone è tormentato dai fantasmi di una guerra che gli ha strappato via i suoi amati fratelli.
Nino, si era arruolato nell’esercito dietro la promessa di un buono stipendio e Alessia, giovane sognatrice di buon cuore aveva scelto, poco dopo, di prestare servizio volontario insegnando ai bambini in una qualche associazione di aiuti umanitari, ma il destino sarà impietoso con loro…
A restare nella terra natale, piena di paesi che portano nomi di santi che tutto fanno tranne proteggere chi vive lì, è rimasto solo Simone che, motivato anch’egli dalla certezza di uno stipendio sicuro comprensivo di vitto ed alloggio, dopo la partenza dei fratelli, sceglie l’abito talare, pur senza essere animato da alcuna fede, trovandosi così a seppellire morti su morti durante quella tragica carneficina e a scoprire che non tutti i morti sono uguali…
Nonostante tutti i nomi dei luoghi dedicati ai santi più disparati, nonostante Simone sia un prete, nella sua testa non c’è fede ma solo fantasmi senza pace che gridano l’abbandono dei genitori prima e la perdita dei fratelli poi.
E’ la storia della follia indotta dai sensi di colpa per non aver potuto far andare diversamente le cose ed è insieme il dramma senza speranza della disgregazione di un nucleo familiare.
Nino ed Alessia tornano in vita nei ricordi di Simone che affastella parole su parole, raccontando, evocando, le vicissitudini familiari e tratteggiando, per sua bocca, la personalità dei fratelli. Nelle loro vene scorre lo stesso sangue, eppure sono completamente diversi e, in una medesima famiglia può capitare anche che, chi si vuol bene, si ritrovi sul lato opposto delle medesime barricate, oppure ad assistere a scelte che non si approvano senza il coraggio di dire alcunché.
Il testo è complesso, a volte ostico da seguire, a tratti ridondante, forse anche per suggerire allo spettatore quel malessere mentale di cui Simone ormai è vittima, colpito da troppi dolori ed incartato nell’intreccio dei ricordi.
Una piéce di sicuro non per tutti, considerata la difficile digeribilità di un monologo che non perde mai i toni del dramma e che sbatte sul palco la crudezza di una vita disperata, animata ormai solo dalla rabbia, dall’esasperazione e dalla follia.
La scena è scarna ma al tempo stesso evocativa, appuntata, grazie anche ad un uso sapiente delle luci, unicamente su ciò che resta: la natura, che sopravvive sempre e comunque all’uomo che vorrebbe soggiogarla, ed il lavoro, compagno eterno di chi rimane.
Tintis, nonostante la difficoltà di uno spettacolo non semplice, regge il palco, non perde mai il filo e accompagna il personaggio di Simone sentendolo suo dal primo all’ultimo minuto, prestandogli mimica e gesti, voce e contenuti… e non è un’impresa facile quindi tributiamo, indubbiamente, un plauso al suo talento.