TROPPI VINCOLI INTERNI ED ESTERNI SULLA POLITICA ECONOMICA. L?UNICA VIA ? ATTREZZARSI PER COMPETERE

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Stiamo attraversando una crisi profonda di natura strutturale. Saltati tutti i punti di riferimento dobbiamo riposizionarci in un mondo profondamente cambiato e in un quadro competitivo totalmente diverso. E’ un processo che deve essere realizzato dagli operatori economici, poiché il governo in senso stretto non ha più molti degli strumenti tradizionali di gestione dell’economia. Ma il sistema in senso allargato – che comprende il governo ma anche le imprese, la scuola, le professioni – può fare molto per riportare l’Italia al posto che le compete

intervento di Marco Vitale

Da anni collaboro con numerose imprese per mettere a punto con loro politiche per competere. In numerosi casi di imprese medie di qualità tutte operanti nei settori tradizionali siamo riusciti a realizzare progetti di internazionalizzazione di successo che non solo ci permettono di fronteggiare nuove e vecchie competizioni ma anche di mettere in atto significativi progetti di sviluppo. L’assunto di base dal quale parto nel disegnare queste politiche aziendali è sempre che non dobbiamo attenderci supporti dal governo. Qualunque impresa che disegna le sue strategie sui presupposto di interventi o politiche di sostegno da parte del governo parte con il piede sbagliato.

LE (POCHE) LEVE ANCORA IN MANO AL GOVERNO NAZIONALE
Ho voluto chiarire questa premessa perché sono convinto che il governo in senso stretto abbia ben poche leve in mano per sostenere la competitività delle imprese italiane nei modi tradizionali. Non ha più la leva del cambio che era uno degli strumenti principali con il quale il nostro modello era solito affrontare le crisi congiunturali. Non ha più la leva del debito pubblico illimitato nel quale si cacciavano i costi di tutti i problemi irrisolvibili o che non si volevano affrontare e i costi dei maggiori dissesti aziendali, perché debito e deficit già hanno ampiamente superato i limiti concordati a livello UE.
Non ha più lo strumento di sostenere la congiuntura aumentando il deficit corrente perché la spesa corrente primaria è già stata aumentata dal 2001 ad oggi di quasi due punti percentuali sul PIL, che vuoi dire circa 30 miliardi di euro all’anno, una cifra enorme. Avrebbe invero lo strumento di una riduzione generale delle imposte e tasse e questa sarebbe una grande politica che potrebbe aiutare le imprese a competere. Ma questa politica sarebbe valida solo se accompagnata da una riduzione delle spese correnti, perché altrimenti si ridurrebbe realisticamente ad un aumento del deficit.
Ma come chiedere questo ad un governo che dal 2001 sta aumentando continuamente la percentuale della spesa corrente primaria sul PIL, che ha la stravagante idea di creare una Banca per il Mezzogiorno, e con Regioni come quella la Campania che inventano il salario di cittadinanza, in un sistema che si muove nell’insieme verso uno statalismo sempre più accentuato ed opprimente?
E in base a quali motivi dovremmo attenderci ragionevolmente una politica diversa dal centrosinistra che per sua natura è portato a seguire le tendenze stataliste e spendaccione dei governo in carica? Il governo potrebbe concordare con la UE una politica temporanea di difesa delle produzioni più sottoposte alla competizione dei paesi low cost, ed in parte è stato fatto, ma sino a quando ed in attesa di cosa? E’ la politica che riuscì a strappare la Fiat, in deroga alle norme della Comunità negli anni ottanta, quando le automobili giapponesi incominciarono a diventare minacciose. E fu l’inizio della debolezza della Fiat, mentre la Germania, che accettò a viso aperto la competizione giapponese, iniziò il cammino che la porterà a diventare leader europeo del settore. Come ha detto recentemente Blair, la competizione si batte con la competizione non con la protezione.
Una volta nei convegni si finiva per reclamare un costo del denaro più basso ed un credito bancario più disponibile e su questo si raccoglieva un largo consenso se non l’unanimità. Ma ora, a prescindere dal fatto che il governo non ha nessuna influenza sui tassi che vengono fissati dai mercati internazionali né sulla disponibilità del credito, che viene determinato dal sistema bancario nella sua autonomia professionale, gli unici imprenditori che hanno diritto a lamentarsi delle condizioni del credito bancario sono gli imprenditori del Sud.

NOSTALGIE DI UNA POLITICA INDUSTRIALE CHE NON C’E’ MAI STATA
C’è ancora qualche nostalgico che dice che dovremmo chiedere al governo una politica industriale. Ma chi ha seguito ad occhi aperti le vicende economiche del Paese degli ultimi 30 anni e si ricorda cosa è successo quando il governo ha provato a fare una politica industriale (a partire dal famigerato piano chimico degli anni 70) non può non fare gli scongiuri quando sente invocare una politica industriale a livello di governo in senso stretto. Non vorrei sembrare ingeneroso di fronte al volenteroso recente tentativo del Ministro delle attività produttive di elaborare un piano triennale (2006/08) che piano non è perché i piani si basano su obiettivi quantitativi e su un rapporto preciso tra obiettivi e mezzi, ma è solo un ragionamento generale che mette in fila le conoscenze convenzionali nella forma tipica di una discreta tesi di laurea.
In realtà leggendo questo volenteroso documento che spazia dall’energia al turismo alle politiche per i consumatori, alla gestione delle crisi aziendali alla contraffazione ci si rende conto, al di là dell’impegno e della serietà delle persone, che è l’assetto istituzionale che non funziona. Un ministero generale delle attività produttive è una insensatezza istituzionale. Il governo potrebbe, anzi “dovrebbe”, invece, fare una specifica politica energetica con l’obiettivo di abbattere l’altissimo costo dell’energia per 1e imprese (per molte delle quali il costo dell’energia è in certi settori il secondo fattore di costo da analizzare quando si valutano le delocalizzazioni) e nello stesso tempo portare l’intero paese ad un livello meno precario dell’attuale. Ma anche questa è una richiesta che formuliamo invano da trent’anni. “Come può esistere un paese senza una politica energetica?” – si chiedeva Ippolito dopo essere stato ingiustamente umiliato per avere lavorato molto bene per l’energia nucleare. E’ la stessa domanda che ci poniamo oggi noi, sgomenti come allora, anche se sembra che negli ultimi tempi, dopo il black out, qualcosa si stia muovendo ed un piano (sperando che sia un vero piano) energetico viene annunciato.

PARTIRE DA UN’ANALISI REALISTICA
Dunque: non c’è niente da fare? No. Vi sono cose da fare che indicherò brevemente. Ma con questo inquadramento io ho voluto porre in chiaro quelli che considero i due pilastri fondamentali di una analisi realistica.
Il primo pilastro è che dobbiamo rifuggire dal chiedere al governo le cose che il governo non può e non sa fare. E’ un tipico difetto di noi italiani di criticare il governo allargato perché non sa fare bene le cose che dovrebbe fare perché sono i suoi compiti primari: l’amministrazione della giustizia, il funzionamento della scuola, la gestione della sanità, le grandi infrastrutture, ma poi, di essere sempre pronti, appena abbiamo un problema o difficoltà competitive, a chiedere al governo che ci aiuti e che intervenga nelle cose che non sa fare e che non è richiesto che sappia fare: come intervenire nella crisi del tessile o sviluppare l’occupazione nel Mezzogiorno e simili.
Il secondo pilastro è di renderci conto che niente di quello che si può fare seriamente è a breve termine. La crisi che stiamo attraversando è una crisi epocale di trasformazione profonda di natura strutturale di autentica metamorfosi. Questo concetto, devo dire, l’ho ritrovato ed apprezzato nel citato piano triennale del Ministro delle attività produttive. Tutti i punti di riferimento sono saltati e noi tutti dobbiamo riposizionarci in un mondo profondamente cambiato, in un quadro competitivo totalmente diverso. E’ un processo che non si realizza a breve, che deve essere realizzato fondamentalmente dagli operatori economici e per il quale le politiche generali concepibili sono fondamentalmente politiche di accompagnamento. Non andiamo dunque alla ricerca di soluzioni miracolistiche a breve di una crisi di questa natura e non pensiamo che il governo( qualsiasi governo) ci risolva i problemi. Se l’economia italiana va male è anche perché da lungo tempo gli interventi di governo sono la sommatoria di interventi congiunturali affastellati uno sopra l’altro per affrontare problemi che sono, invece, strutturali, spesso con effetti opposti a quelli desiderati. Così per fare un solo esempio i provvedimenti presi dal ministro Tremonti per far emergere il sommerso hanno avuto l’effetto di aumentarlo enormemente: in alcune località del Mezzogiorno esso viene ormai stimato intorno al 60% dell’economia totale.
Dunque quali politiche di accompagnamento a medio termine (diciamo nell’arco di cinque anni) potrebbero essere sviluppare per accompagnare il paese produttivo a trovare una nuova collocazione nella nuova competizione globale?

DIECI AZIONI "VIRTUOSE" POSSIBILI – DALLA POLITICA ALL’ENERGIA
Ecco il mio decalogo:
1. Diminuire il costo della politica
La prima politica che chi governa il Paese può fare è di diminuire, in modo importante, il costo della politica (in senso allargato), di modificare radicalmente il rapporto costi/risultati di tutto quello che attiene alla sfera pubblica, di aumentare quindi enormemente la produttività dell’azienda Stato in tutte le sue articolazioni, di. diminuire radicalmente il peso dei ladri e dei parassiti politici. Il Sole 24 Ore ha dedicato poco tempo fa un’esemplare inchiesta sul costo delle istituzioni politiche italiane rispetto a quelle dei maggiori paesi europei. Il confronto è desolante.
Ma se ci caliamo nei bilanci di alcune regioni e di alcune città ne usciamo letteralmente sgomenti. E ancora più grave è quel costo della politica che non è espresso nei bilanci pubblici ma si riflette nei bilanci degli operatori privati e delle famiglie, che è il costo dell’inefficienza, del non fare, del rendere complicate le cose semplici. Questo Paese non può più supportare questo peso di questa politica se vogliamo che riprenda a camminare seriamente sulla via dello sviluppo. Ci affonda tutti. E siccome non esiste il minimo indizio che la classe politica, a destra o a sinistra, si renda conto di ciò e voglia correggersi, è indispensabile che il Paese, che le categorie più attive e organizzate del Paese (tra le quali certamente gli imprenditori) aprano un vero e proprio contenzioso politico su questo tema (come hanno fatto circa quindici anni fa gli americani con il filone: Reinventing Government, che ha avuto profondi effetti positivi a tutti i livelli, da quelli locali a quelli federali): a livello centrale, regionale, cittadino. Se non si fa questo tutto il resto è aria fitta. Questa esigenza è stata in un certo senso percepita dalla legge finanziaria in corso che ha previsto tagli generali al centro e in periferia. Meglio di niente. Ma questi spunti improvvisati non sono la risposta giusta che deve essere sistematica, incisiva e programmata. Deve essere una politica di medio lungo termine.
2. Tenere a posto la propria finanza e ridurre imposte e tasse
Mentre la maggior parte delle aziende sono costrette a tenere a posto la propria finanza, il governo sembra esente da questo onere. La seconda politica di sostegno per il paese produttivo che il governo può fare, peraltro collegata alla prima, consiste in una finanza pubblica decente, cioè nel tenere, come tutti i soggetti privati, in ordine la propria casa. Questa esigenza è stata riconosciuta dal Governo nella finanziaria di aggiustamento ma sempre con metodi improvvisati e insufficienti. Tale politica è la premessa per una seria e non virtuale diminuzione delle imposte e tasse, politica assolutamente indispensabile se vogliamo che il nostro Paese ritorni a crescere. Oggi le imprese italiane in regola con il fisco sono tra quelle che portano uno dei più elevati oneri fiscali al mondo.
3. Liberalizzare i servizi
Un’altra politica fondamentale è quella di liberalizzare i servizi ed allargare la sfera di competizione negli stessi.
4. Sviluppare una politica energetica che riduca il costo dell’energia e renda il Paese meno esposto ai rischi di questo settore fondamentale

L’ho già illustrato e non mi ripeto.
5. Trovare le strade, cosa certo non facile, ma indispensabili, per ridurre il divario tra costi netti per i dipendenti e costo del lavoro
Anche questa è una politica fondamentale. La riduzione dell’l % nella finanziaria è un segnale in questa direzione ma, al contempo, è un segnale di impotenza.

DALLA SCUOLA ALLA "DITTA"
6. Bloccare e invertire tutte quelle riforme scolastiche che stanno svuotando di significato la formazione tecnico-professionale

Bisogna reinventare la formazione tecnico-professionale non distruggere quello che resta.
7. Non ostacolare il processo di internazionalizzazione delle nostre medie imprese
Le multinazionali tascabili italiane sono una realtà che deve crescere e che deve conquistarsi un suo posto onorevole nelle grandi zone emergenti del mondo.
8. Sviluppare linee chiare di politica economica che possano essere punto di riferimento sicuro, affidabile e relativamente stabile per le imprese
Oggi le imprese sono sottoposte a venti che soffiano da tutte le parti e che cambiano molte volte direzione nel corso della giornata. Soprattutto dopo la caduta di credibilità della Banca d’Italia si sente la mancanza di un organismo serio, indipendente che formuli analisi della situazione economica e indirizzi di politica economica tali da essere di utile orientamento (come esiste ad esempio in Germania). Non possiamo andare avanti facendo la politica economica nel salotto di Porta a Porta di Bruno Vespa.
9. Stimolare le piccole imprese verso i distretti di nuova generazione
I distretti di nuova generazione sono quelli dove non esiste più solo un generico legame territoriale tra imprese che svolgono attività simili, ma dove le piccole imprese si raggruppano in centri produttivi organizzati nei quali ciascuno conserva la sua autonomia ma dove molte attività (comprese quelle di ricerca e di trasferimento tecnologico) vengono unificate in forma consortile. Vi sono già alcuni esempi funzionanti con risultati eccellenti sul piano del risparmio di costi e di efficacia di sistema. Il campione in questa direzione è, a mio giudizio, il Tari di Marcianise (Napoli). Questi esempi vanno studiati, divulgati e moltiplicati. L’art. 53 del Disegno di Legge Finanziaria, che merita apprezzamento, si muove in questa direzione.
10. Tenere alto il morale e il nome della ditta
Il successo e l’insuccesso economico di un Paese non è fatto solo di fatti materiali. Ma è fatto come nelle imprese anche di componenti immateriali. Noi viviamo un periodo di sgomento e tristezza esagerati. All’ultimo Forum di Davos che riunisce molti manager mondiali l’Italia, sulla base di un’indagine condotta dalla Università del Maryland, è risultato il Paese più pessimista sulle prospettive future di tutti i principali paesi. Talora questo pessimismo assume livelli grotteschi. Secondo le ultime rilevazioni di Enrico Finzi (sociologo, presidente di Astra) nel settembre 2005 alla domanda: stiamo meglio dei nostri nonni? solo il 59% degli italiani dà una risposta positiva. Alla stessa domanda, nel periodo 1961-2000, l’89% dava una risposta positiva.
Fortunatamente questi sentimenti stanno migliorando. Lo dimostrano le stesse statistiche di Finzi, alcuni primi segnali degli indici produttivi e di esportazione, ma soprattutto programmi, progetti, rinnovati impegni che si percepiscono sul campo. Si è incominciato a prendere più realisticamente le misure dei problemi ed a capire che sono seri e difficili ma non tali da giustificare un così grave scoraggiamento. La partita è dura. Ma siamo in partita. Forse il periodo dei piagnistei è superato. E, come ha detto con efficacia un imprenditore, forse il fazzoletto che serviva ad asciugare le lacrime tornerà ad essere utilizzato per asciugare il sudore.
Il know-how diffuso ed accumulato nella nostra imprenditoria minore produttiva è un grande patrimonio del Paese che non può essere facilmente spazzato via e che va ricollocato al posto che gli compete. Ma sono necessarie anche politiche che aiutino a ricuperare morale e volontà. E la politica principale in questo senso è tenere alto il nome della ditta. Quando il nome dell’Italia è rispettato, l’azione imprenditoriale, sia all’interno che soprattutto internazionalmente, è sostenuta e agevolata. Quando il nome della ditta è nella polvere o, peggio, nel fango anche il morale, la voglia di fare e la nostra capacità competitiva si indeboliscono. Gli incontri vacanzieri con Putin non compensano vicende umilianti e che corrono in tutto il mondo come quella della Banca d’Italia e della connessa legge sul risparmio e soprattutto l’inerzia che il governo ha dimostrato nel gestirle che hanno gravato sul paese produttivo molto più di un’imposta patrimoniale.

CONCLUSIONI. IL GOVERNO DA SOLO NON PUO’ MOLTO MA IL SISTEMA "ALLARGATO" CE LA PUO’ FARE
Questo il mio modesto decalogo. In esso non ho messo azioni di tutela del made in Italy e azioni contro la contraffazione né eventuali misure di difesa in casi estremi e particolari, non perché ritenga queste misure inutili ma perché esse non rappresentano politiche per competere ma solo misure di tutela di gestione ordinaria che gli organi competenti devono assicurare, in un quadro europeo, nello svolgimento ordinario delle loro ordinarie responsabilità. Se il governo in senso stretto non ha più molti degli strumenti tradizionali di governo dell’economia, il sistema in senso allargato, che comprende il governo ma anche le imprese, la scuola, le professioni può fare molto per riposizionare l’Italia al posto che le compete, secondo le linee limpidamente indicate dall’esemplare Documento dei 15.

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