efferate scelleratezze erano dotate di codici etici giudicati
eccellenti e pagati a caro prezzo, di consiglieri indipendenti, di
comitati audit". Marchingegni con i quali ci si
illude, invano, di ovviare al problema chiave, "la mancanza di coscienza e responsabilità
individuale del top management: una figura e un ruolo non solo teorici
ma che – per citare un esempio recente – si ritrovano nell’azione dei
due dirigenti Bankitalia i quali, nell’estate scorsa, si erano opposti
alla scalata BPI ad Antonveneta con precise motivazioni. I massimi
organi della Banca Centrale stavano già per metterli sotto inchiesta,
quando furono salvati dalla stampa". In un intervento al Circolo
Libertà e Giustizia di Milano Marco Vitale, economista d’impresa, già
docente all’Università di Pavia e all’Università Bocconi di Milano, ha
affrontato i temi quanto mai attuali dei limiti della cosiddetta “etica d’impresa” e
della responsabilità individuale dei manager. Ne
riportiamo una sintesi a cura di Ercole Perelli
Quando la trasgressione è diffusa non bastano corrette norme
giuridiche, adeguate sanzioni e buoni giudici per tornare alla
legalità. Per coloro che violano le leggi, le sanzioni più temibili –
prima ancora di quelle penali – dovrebbero essere l’indignazione e il
disprezzo sociale. Purtroppo, a fronte di palesi e generalizzate
violazioni, le reazioni della comunità nel suo insieme sono spesso
assenti, o troppo timide, in rapporto ai danni arrecati alla
concorrenza, al mercato e al Paese.
“L’impresa irresponsabile” afferma che mai come negli ultimi quindici
anni si è tanto scritto su etica e responsabilità sociale dell’impresa.
Nello stesso periodo, a fronte di tanto interesse, sono invece
cresciuti in maniera preoccupante i casi reali di irresponsabilità
delle imprese.
In effetti della Business Ethics si cominciò a parlare in America verso
la metà degli anni Ottanta. In una lezione in Bocconi tenuta nel 1988
ponevo gli studenti all’erta di fronte alla moda della Business Ethics;
con l’aiuto di Aristotele distinguevo tra l’etica – generale e
unitaria, una e indivisibile – e le regole di comportamento
professionale.
I principi basilari di ciò che è giusto, di ciò che è sbagliato, sono stati scoperti dall’uomo, non inventati.
Ne consegue che l’etica è una sola, quindi non si può ripartirla per arti e mestieri.
Quando negli anni successivi si sviluppò l’altra moda dei codici etici
d’impresa, sostenni che davo poco valore a queste mediocri parafrasi
del Codice penale e dei Dieci comandamenti. Non che non possano essere
strumenti utili, soprattutto nelle grandi imprese. Ma restano semplici
strumenti.
Molte delle imprese dove sono state commesse efferate scelleratezze
erano dotate di codici etici giudicati eccellenti e pagati a caro
prezzo, di consiglieri indipendenti, di comitati audit e di tutti gli
altri marchingegni con i quali ci si illude, invano, di ovviare alla
mancanza di coscienza e responsabilità individuale del top management…
Peter Drucker, a proposito del ruolo del manager, scriveva nel 1954:
“l’integrità morale: requisito fondamentale di oggi e di domani.
L’istruzione intellettuale non sarà sufficiente, da sola, a fornire a
un dirigente i mezzi necessari per far fronte ai compiti che lo
attendono nel futuro. Il successo del dirigente di domani sarà sempre
più strettamente connesso con la sua integrità morale… i rischi
connessi saranno talmente gravi da esigere che il dirigente anteponga
il bene comune ai suoi stessi interessi. La sua influenza, su coloro
che lavoreranno con lui in azienda, sarà cosi decisiva che il dirigente
dovrà basare la sua condotta su rigidi principi morali, anziché su
espedienti".
Una figura e un ruolo non solo teorici, ma che – per citare un esempio
recente – si ritrovano nell’agire dei due dirigenti Bankitalia i quali,
nell’estate scorsa, si erano opposti alla scalata BPI ad Antonveneta
con precise motivazioni. I massimi organi della Banca Centrale stavano
già per metterli sotto inchiesta, quando furono salvati dalla stampa…
Infine è venuta la moda dell’impresa socialmente responsabile e la
confusione, se possibile, è ancora aumentata. Il filone, impropriamente
denominato come filone dell’etica d’impresa, non ha niente a che fare
con l’impegno dell’impresa ad assumersi compiti di assistenza sociale o
filantropica …
Si tratta di aspetti ben distinti, il primo si interessa dell’impresa
in sé, dei suoi comportamenti nello svolgimento della sua normale e
specifica attività. L’impresa deve, per la sua sopravvivenza, nel suo
interesse, non come fatto d’immagine ma come fatto sostanziale, cercare
continuamente di conciliare la ricerca del profitto con la stabilità
dello sviluppo e con il rispetto dei terzi, dell’ambiente, della
società.
Deve essere, quindi, sempre e naturalmente socialmente responsabile,
come del resto deve fare ogni buon cittadino. Questo filone che cerca
di indirizzare tutte le imprese verso comportamenti corretti e utili,
non ha niente a che fare con i contributi che le imprese possono
decidere di dare per l’assistenza sociale.
Vi può essere un’impresa dai comportamenti virtuosi, che merita il
giudizio positivo delle agenzie di rating sulla responsabilità sociale,
che non dà nulla in beneficenza o nel sostegno di politiche di welfare.
Vi può essere invece un’impresa pessima, corrotta e corruttrice, che
sfrutta i minori nel Terzo Mondo, evade le imposte, produce e vende
prodotti pessimi e che spende molti soldi in assistenza e
beneficenza…la storia e la cronaca sono piene di imprese di questo tipo
che brillano come contributori di assistenza sociale, proprio perché
sperano, in questo modo, di comprarsi la benevolenza dei politici,
della Chiesa, della stampa e dei giudici per i propri comportamenti
antisociali. Allora, dobbiamo mettere da parte le tematiche sulle
responsabilità etiche dei manager? Tutt’altro. Mai come oggi esse sono
importanti. Ma dobbiamo liberarle dal cabarettismo e ricollegarle alla
teoria dell’organizzazione, dell’impresa e del management. E non
trascurare il ruolo essenziale che deve avere la reazione della
comunità.