Possiamo partire da questo esempio di attualità per fare una breve riflessione su alcuni dei tanti casi in cui il capitalismo dalle corte vedute sta producendo effetti perversi.
Sono un pirata, non sono un signore
Stando alle teorie diffuse dalle lobby degli editori, la pirateria musicale e cinematografica sembra essere la piaga del ventunesimo secolo. Com’è, allora, che:
- i cinematografi, dopo la crisi degli anni 80, sono strapieni, e i multisala spuntano come funghi?
- anche se continuano a esserci più scrittori che lettori, le librerie sono sempre più belle e affollate?
- i picchi di vendita dei cd si sono registrati ai tempi in cui, primi anni 90, il noleggio era libero?
- i concerti dal vivo hanno visto i prezzi crescere più dei dischi eppure sono sempre più numerosi e sempre più affollati, dovunque?
Non sarà che quando il prodotto risponde alle esigenze oggettive dei consumatori, viene intaccato dalla pirateria solo marginalmente? Per quanto grande puoi avere lo schermo piatto a casa, non è cinema. E un libro di carta da toccare, è ancora e forse sarà sempre meglio di qualsiasi altro supporto per la lettura. Senza contare la magia della musica dal vivo, che ti entra dentro insieme con il bagno di folla dei tanti che condividono le stesse emozioni.
La domanda è: chi proteggiamo?
Eppure l’argomento è sempre quello: se non si proteggono i diritti d’autore gli artisti non sopravvivono. Sarà vero? Intanto la scena musicale autentica (cioè, non quella sanremese) è oramai piena di gente come la Bandabardò e i Tetes de bois che non dico incoraggino la pirateria ma insomma se ne fregano: fanno 200 concerti l’anno e magari non diventeranno miliardari ma ricchi si, e come dice la Bibbia “col sudore della loro fronte”… E poi la domanda giusta è: come sono arrivati a noi Mozart e Beethoven, Verdi e Puccini, se ai loro tempi i diritti d’autore non esistevano? Non è che sta cosa sia in definitiva una parentesi nella storia della musica, legata più che altro a un oggetto tondo di plastica? Eppoi, in definitiva, su 20 euro di un disco, quello che va all’autore si misura in frazioni di euro. Cosa proteggiamo allora? La distribuzione, che piglia il 50% (lo stesso disco nei negozi “legali” on-line sta a 9,99!). E l’editore, la casa discografica, per il resto… Si potrebbe dire, a questo punto, che anche l’industria discografica ha diritto di proteggersi. Ma il punto è proprio questo: lo sta davvero facendo, o la guerra alla pirateria è in realtà un clamoroso autogol? Su partito-pirata.it, in proposito, sembrano avere le idee chiare…
Basta la Vista
Negli anni 70, con l’affermarsi dei primi personal computers, ci fu un vero boom di iscritti alle facoltà di informatica: si era diffusa l’idea che fosse necessaria una nuova alfabetizzazione, per imparare ad usare, parlare con, e programmare, queste nuove macchine. Poco dopo, l’industria del software cominciò il percorso opposto: avvicinare la logica e il linguaggio della macchina a quello dell’utente. Prima Apple, poi Microsoft che diventerà dominante copiando alla grande tutto il copiabile, per questa via hanno contribuito sia alla diffusione capillare del mezzo che al suo sviluppo tecnologico, e in maniera determinante. Il resto lo ha fatto Internet, all’inizio sottovalutata dallo stesso Gates (tanto è vero che in questo campo i suoi programmi, altrove all’avanguardia, sono stati protagonisti di una affannosa rincorsa mai completata…).
Il processo ha avuto uno sviluppo esponenziale, tanto che per un trentennio l’obsolescenza delle macchine è stata accelerata dagli sviluppi dei programmi, visto che quelli nuovi per girare necessitavano sempre di un pc più potente e, come si dice, “multimediale”. Fenomeno in parte inevitabile ma in parte certo cavalcato per “dare una mano” all’industria. Adesso se non siamo al punto di non ritorno vi siamo senz’altro vicini: l’integrazione tra hardware e software è sempre maggiore, il controllo di ciò che gira sulla Rete e sui pc privati sempre più totale, anche per scopi di protezione, di nuovo, dei diritti d’autore su audio video e software, e la distinzione logica (e presto fisica) tra il pc e altri media più tradizionali (telefono, tv, stereo) sempre più labile. Non ci vuole un guru della comunicazione per capire che su questa strada la saturazione del mercato è vicina: gli investimenti in innovazione e protezione sono oramai avvitai in una spirale inarrestabile e improduttiva, e il flop annunciato di Windows Vista sarà il primo segnale della discesa. E da anni non si parla più di Internet come del luogo della Libertà, l’avete notato? Tanto è vero che, per fare l’ultimo favore ai gestori di telefonia, forse si perderà anche l’ultimo treno all’accesso democratico alla Rete che è costituito dalla liberazione delle frequenze Wi-Max, assegnando anche queste con aste suicide come per l’Umts.
Il motore del 2000
Quando era ancora di sinistra, Lucio Dalla cantava (era il 1976) che “l’auto è in crisi profonda, non ha futuro, stecco di legno sull’onda; dopo l’assestamento le auto saranno più rare e finiranno per scomparire come lampare sul mare”. In realtà, la crisi petrolifera degli anni 70 ha prodotto forse l’ultimo reale step tecnologico reale dell’industria automobilistica: le auto per un ventennio diventavano sempre più leggere, parsimoniose nei consumi ed economiche. Invece la crisi successiva, innescata dalla Prima guerra del Golfo e mai finita, ha paradossalmente partorito strategie economiche tanto aggressive dal punto di vista politico/militare quanto evidentemente deboli dal punto di vista progettuale. E automobili sempre più grosse, pesanti, goffe, volgari, beone nei consumi e in definitiva care, sicure solo apparentemente (perché altrimenti, a dispetto di limiti di velocità, patenti a punti, airbag, abs e altre conquiste vere o presunte della tecnica, i morti sulle strade aumentano più che proporzionalmente rispetto all’aumento della circolazione?). Mentre strategie alternative al petrolio, come l’idrogeno ad esempio, sono più o meno allo stesso punto nel percorso tra ricerca e applicazione industriale da quasi vent’anni.
Non è che anche qui stiamo assistendo, come per gli altri campi trattati, a niente più che una battaglia di retroguardia?
Sindrome cinese
Il titolo è di un vecchio film con Jack Lemmon che denunciava i rischi delle centrali nucleari, fra l’altro profetizzando l’incidente di Three Miles Island, precedente di qualche anno quello di Chernobyl e di esso meno noto ma non meno potenzialmente pericoloso, che causò l’interruzione del programma di costruzione di centrali a fissione nucleare negli Stati Uniti.
Più o meno nello stesso periodo, l’Italia avviava il suo programma nucleare, interrotto pochi anni e molti miliardi dopo sull’onda emotiva del fattore Chernobyl. Da allora tutte le volte che c’è una qualche crisi energetica, i fautori della scissione controllata di atomi pesanti escono dai loro bunker e tentano di riaffermare il loro business. Che è tale solo ed esclusivamente in base ad un trucco di bilancio: il kilowattore nucleare è conveniente se – e soltanto se – si contabilizzano solo i costi a breve e medio periodo. Se invece ci costringiamo a dividere per unità di energia prodotta i costi di smaltimento delle scorie e di smantellamento delle centrali obsolete, ecco che magicamente questa fonte di energia diventa di gran lunga la meno conveniente economicamente mai concepita. E senza considerare i costi di possibili incidenti né tantomeno i costi economici e sociali di possibili patologie ricollegabili alla presenza di centrali nucleari nel territorio, sempre riferite e mai abbastanza provate.
Purtuttavia, in Europa ci sono ancora molti stati pieni di reattori nucleari, più (la Francia) o meno (gli Stati ex-URSS) sicuri, e a poco vale restarne fuori direttamente se vi si entra indirettamente, comprando energia da quei paesi…
Il paradigma della contabilizzazione dei costi a lungo termine, di cui la fissione nucleare è esempio da manuale, è però la chiave della soluzione del rebus ecologico: fosse applicato a tutti i settori in cui le imprese scaricano sulle generazioni future i costi per sfruttare adesso i profitti, quelle imprese sarebbero fuori mercato per motivi economici e non semplicemente “non rispettose dell’ambiente”.
Fra l’altro, tolta questa leva di competitività alle imprese del capitalismo rampante dell’Oriente, Cina e India in primis, non resterebbe loro che quella del costo del lavoro, che come dimostra il caso Corea del Sud dura al massimo qualche decennio…
Il digitale marziano
Non si ricorda mai abbastanza: il digitale terrestre è stato introdotto dal governo Berlusconi per aggirare numerose sentenze anche di rango costituzionale, che imponevano il trasloco sul satellite di Rete 4 e la liberazione delle frequenze terrestri in favore della loro legittima assegnataria Europa 7. Ma la tecnologia che sta dietro il digitale terrestre è già superata. In un Paese serio si farebbe una legge che incentiverebbe, in maniera così pesante da in pratica costringere (magari accoppiata al divieto di parabola sul balcone), ogni condominio ad avere, magari accanto ai pannelli solari per l’acqua calda, un ricevitore satellitare. Con il quale poi chi vuole può comprare il decoder per accedere al bouquet di Sky o qualsiasi altro network a pagamento, ma tutti gli altri ricevono perfettamente il segnale di tutte le reti visibili attualmente in analogico e domani in digitale terrestre.
Il parco buoi
Che si tratti di una vera e propria sindrome si comincia a sospettare quando ci si avvicina al terreno più strettamente economico, magari passando per quella sua provincia strana che è il mondo finanziario. Per capire il quale bisognerebbe affrontare il problema di cosa è davvero la Borsa Valori. Certo uno strumento indispensabile del moderno capitalismo, ma solo a patto che il mercato sia davvero trasparente e ai piccoli investitori arrivino davvero tutte le informazioni che arrivano ai grandi: cosa che non succede neppure in America, come stanno a dimostrare i grandi scandali finanziari all’inizio dell’ultimo decennio. Quindi il cosiddetto “investimento pigro” in borsa, cioè quello fatto da un risparmiatore di poche pretese che compra alcuni titoli considerati affidabili e lascia lì i suoi soldi sperando che possano dargli dei frutti ragionevoli, nel tempo si rivela normalmente meno vantaggioso di altri possibili investimenti.
In Italia, poi, ci sono altri problemi:
- siamo un’economia matura, dove quando c’è una crescita del PIL superiore all’1% si grida quasi al boom, quindi se vale il teorema su enunciato non possiamo attenderci da un investimento pigro in borsa guadagni rilevanti;
- il precedente governo ha depenalizzato il falso in bilancio, di fatto incentivando le imprese a commetterlo (se c’è concorrenza e tu fai carte false e io no, io non sono competitivo…), e quello attuale non ha ancora trovato il tempo (…) di intervenire in materia.
Senza contare che negli ultimi anni sono entrate in Borsa numerose società calcistiche, che attraggono risparmiatori animati da motivazioni extraeconomiche e hanno bilanci per natura aleatori su cui grava peraltro un malcostume diffuso e tradizionale.
Se ne deduce che un piccolo risparmiatore che compra delle azioni di una società quotata nella Borsa italiana per tenersele mesi o anni è diciamo un coraggioso. Se investe in una società di calcio è addirittura un temerario (o, più spesso, un tifoso fanatico – ma allora la perdita è più che meritata…).
E siccome la grande maggioranza dei risparmiatori italiani è avveduta, ecco che la nostra Borsa è diciamo medio/piccola (mentre la nostra economia è da G8…), e i prezzi delle case negli ultimi 5 anni si sono triplicati…. (certo, anche per altri fattori, ma…).
Se ne deduce altresì che la maggior parte dei cosiddetti capitalisti italiani è animata diciamo così da necessità di redditività impellenti, più che da progetti economici di largo respiro.
OCCHIO DI FALCO
Ecco il trait d’union logico di un tessuto così ampio da suonare necessariamente superficiale. Il capitalismo mondiale, e quello italiano in forma più accentuata, già sul finire del secolo scorso, e in misura maggiore in questo scorcio di ventunesimo, dimostra di essere guidato più da pulsioni istintive che da disegni strategici. Come se si fosse oramai instaurata la convinzione intima che siccome non ci resta più tanto tempo, tanto vale guadagnare subito quanto più possibile anche a costo di compromettere i guadagni di un futuro che potrebbe non esserci.
Detta in maniera meno drammatica, nel capitalismo contemporaneo prevalgono logiche di redditività a breve termine, sono rare quelle a medio termine, quasi inesistenti quelle a lungo.
In una logica marxiana si potrebbe dire che le contraddizioni del capitalismo vengono al pettine, in una socialdemocratica che tutto ciò è la prova provata che il laissez-faire non funziona, che il capitalismo lasciato a se stesso resta prigioniero del proprio stesso istinto. D’altronde, è dimostrato che:
- se non fossero miopi le case automobilistiche vedrebbero che il loro vero interesse è sganciarsi dalle industrie petrolifere, ed è un peccato che i giapponesi si stiano muovendo molto in questo campo mentre la Fiat, purtroppo attardata per anni dalla sua lunga crisi, pare ancora ferma;
- l’industria discografica spende risorse enormi per proteggersi tecnologicamente, e in quanto lobby legislativamente, da un fenomeno che le converrebbe cavalcare, se non fosse incapace di capire, a causa della sua miopia, che allorquando c’è massima libertà il mercato culturale cresce esponenzialmente e con esso le possibilità di guadagno per tutti quindi anche per lei stessa;
- lo stesso discorso pari pari si può ripetere nel campo dell’informatica, meno nel cinema e nei libri solo per via della peculiarità di questi mezzi nel valore aggiunto intrinseco dei loro prodotti tradizionali.
La finanziarizzazione e l’immobiliarizzazione estrema della nostra economia dovrebbero aver convinto anche il liberista più integralista che i capitalisti nostrani, senza una griglia di regole stringenti, cedono al loro istinto di ragionare al massimo a un palmo dal naso. Le liberalizzazioni di Bersani, ammesso che gliele facciano finire, dovrebbero essere accompagnate da un disegno strategico di politica economica di medio/lungo termine, fatto di regole stringenti e controlli effettivi sul loro rispetto, tra cui deve essere prevista una qualche forma di contabilizzazione dei costi ambientali già nella fase di valutazione di qualsiasi piano industriale.
E non parlo di cose ovvie come gli investimenti in ricerca e sviluppo e nel sistema formativo scolastico e universitario. In questo campo, dovremmo puntare almeno a raggiungere i nostri colleghi di “prima classe” del treno-UE, per poi porci assieme a loro obiettivi comuni di miglioramento. Solo così il capitalismo occidentale può sperare di sopravvivere all’impatto con quello orientale, ed anzi di avere la massa critica per indurlo ad agire all’interno di logiche che non portino a rendere invivibile il pianeta nel giro di alcune generazioni. Il drammatico allarme sul surriscaldamento lanciato dall’Onu proprio in questi giorni dovrebbe far aprire gli occhi anche ai più miopi tra noi.