Come è noto, la “riforma Dini” del 1995 ha modificato la regola di calcolo delle prestazioni erogate dal sistema previdenziale pubblico, sostituendo il precedente metodo a beneficio definito – cosiddetto retributivo – con uno cosiddetto “contributivo”, che si applica, tuttavia, integralmente solo a chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 (chi in quella data aveva un’anzianità contributiva superiore ai 18 anni continuerà a ricevere una pensione calcolata col retributivo, chi ne aveva una inferiore riceverà una pensione mista, calcolata “pro rata” in parte retributiva e in parte contributiva).
Con il sistema retributivo la prestazione viene calcolata come prodotto del numero di anni di contributi maturati, della retribuzione pensionabile (generalmente una media delle ultime annualità) e di un coefficiente di rivalutazione, in linea generale pari al 2% (anche se differenziato nelle diverse gestioni pubbliche e, solitamente, maggiore in quello delle gestioni dei lavoratori più abbienti). Di conseguenza, con 40 anni di contribuzione il tasso di sostituzione lordo (ovvero il rapporto fra la prima annualità di pensione e l’ultima di retribuzione) è pari a poco meno dell’80% dell’ultima retribuzione ed è indipendente sia dall’età di pensionamento (che non compare infatti nella formula di calcolo) sia dall’aliquota contributiva cui si è soggetti (ne risultavano ad esempio fortemente avvantaggiati gli autonomi, che ricevono col retributivo una pensione legata agli ultimi stipendi, pur essendo soggetti ad un’aliquota contributiva di molto inferiore di quella a carico dei dipendenti).
Il metodo contributivo si basa invece su criteri di rigida equità attuariale fra i contributi versati durante l’intera carriera e le prestazioni che si riceveranno da anziani. La pensione è infatti calcolata moltiplicando il montante derivante dall’accumulazione dei contributi (sui quali è garantito un saggio di rendimento pari alla media quinquennale del tasso di crescita del PIL nominale) per i cosiddetti coefficienti di trasformazione, i quali, in base all’aspettativa di vita attesa al momento del pensionamento, trasformano lo stock di montante in un flusso di rendite pensionistiche mensili. Pertanto nello schema contributivo la prestazione dipende da quanto si è contribuito (quindi da tutti i versamenti dell’attività lavorativa) e dall’età in cui ci si ritira.
Come funziona il contributivo
Più in dettaglio le pensioni erogate, e il loro tasso di sostituzione, discendono da una serie di elementi, alcuni legati alle caratteristiche individuali, altri all’andamento aggregato dell’economia e della demografia. Fra questi i principali sono:
L’aliquota di computo dei versamenti; a parità di salario ricevuto, un’aliquota più elevata accresce la prestazione e, quindi, il tasso di sostituzione.
La lunghezza della carriera individuale (ovvero la sua continuità). Ceteris paribus una carriera più lunga accresce i versamenti e quindi la pensione.
L’età di pensionamento; un ritiro ad età più avanzate riduce, in media, il numero di anni in cui si riceverà la pensione e, su basi attuariali, accresce la rendita unitaria cui dà diritto il montante accumulato.
La dinamica salariale; salari più elevati, a parità di aliquota, accrescono contributi e prestazioni. Al contempo una maggiore crescita salariale riduce il tasso di sostituzione, dato che accresce il denominatore più del numeratore.
La crescita aggregata dell’economia, dalla quale dipende il tasso di rivalutazione del montante contributivo. Un maggior tasso di crescita del PIL incrementa le prestazioni e, a parità di dinamica salariale, il tasso di sostituzione.
L’andamento dell’aspettativa di vita, dal momento che è previsto che i coefficienti di trasformazione vadano aggiornati periodicamente per tenere conto di tale andamento. Un allungamento della speranza di vita, incrementando in media il numero di anni in cui si riceverà la pensione, riduce l’entità unitaria della prestazione e, quindi, il suo tasso di sostituzione.
A parità di andamento aggregato dell’economia e della demografia, nel sistema contributivo la prestazione dipende allora essenzialmente dai contributi versati nella carriera lavorativa (ovvero dalla sua continuità e durata, dal livello salariale e dall’appartenenza a categorie che versano una maggiore aliquota contributiva) e dall’età in cui si va in pensione (elemento quest’ultimo, come detto, prima trascurato nel fissare il trattamento spettante). In altri termini, basandosi su criteri di equità attuariale fra versamenti e prestazioni, lo schema contributivo è scevro da significativi elementi redistributivi e costituisce essenzialmente uno specchio di quanto accade sul mercato del lavoro.
In ogni caso, dal momento che i coefficienti di trasformazione non sono differenziati per sesso e, in media, gli uomini hanno un’aspettativa di vita minore delle donne, il sistema contributivo redistribuisce a favore di queste ultime (ancora oggi soggette, tuttavia, a discriminazioni salariali e di carriera nel mercato del lavoro italiano). Nel sistema contributivo è invece esclusa l’integrazione al minimo; come prestazione a carattere assistenziale means tested è previsto per gli ultra-sessantacinquenni l’assegno sociale, erogato qualora il reddito familiare sia inferiore ad una determinata soglia.
I problemi
Come noto, il sistema contributivo è stato introdotto principalmente per garantire la sostenibilità finanziaria della spesa previdenziale, oltre che per ridurre le iniquità distributive e le inefficienze del precedente sistema (legate a un metodo di calcolo indipendente dall’entità dei contributi versati e dall’età di pensionamento). Tuttavia, recentemente nel dibattito di politica economica si sta ponendo un’enfasi sempre maggiore sul grado di adeguatezza delle prestazioni erogabili dallo schema contributivo, soprattutto in considerazione dell‘aumento atteso dell’aspettativa di vita (e della conseguente significativa riduzione dei coefficienti di trasformazione) e nel contesto attuale di un sistema economico a bassa crescita, con un mercato del lavoro incapace di garantire a tutti i lavoratori salari elevati e carriere continue.
Una particolare preoccupazione riguarda le prospettive previdenziali dei lavoratori parasubordinati, i quali, anche dopo le recenti riforme, sono soggetti ad un’aliquota previdenziale significativamente inferiore di quella a carico dei dipendenti (a regime, dal 2010, 26% versus 33%, dopo anni di contribuzione con aliquote di computo inferiori anche al 15%) e, più in generale, dei lavoratori discontinui, data la scarsa rilevanza nel sistema di welfare italiano di schemi di ammortizzatori sociali e contribuzione figurativa (del tutto assenti per i parasubordinati). Si consideri, in aggiunta, che i parasubordinati, rispetto ai dipendenti, oltre che da un’aliquota contributiva inferiore sono caratterizzati, generalmente, da minori salari, maggiore discontinuità della carriera e assenza di contribuzione per il TFR. Dato che presumibilmente si trovano a fronteggiare elevati vincoli di liquidità, è inoltre poco probabile che tali lavoratori possano volontariamente aderire a forme pensionistiche private integrative.
Nel “protocollo sul welfare” attualmente in discussione in Parlamento si pone attenzione al problema dell’adeguatezza delle prestazioni future stabilendo che nei prossimi mesi una Commissione appositamente costituita, composta da membri del Governo e delle parti sociali, dovrà, da un lato, proporre modifiche dell’attuale sistema di calcolo dei coefficienti di trasformazione e, dall’altro, valutare l’incidenza dei percorsi lavorativi discontinui, anche al fine di proporre meccanismi di solidarietà e garanzia che, nell’ambito di un sistema contributivo, siano in grado di consentire il raggiungimento di “tassi di sostituzione netti” non inferiori al 60%, inserendo perciò esplicite integrazioni di segno redistributivo.
Dalla lettura del protocollo e del disegno di legge in cui esso è stato articolato, malgrado non vengano specificati né la platea di riferimento (ad esempio non si specifica il numero minimo di anni di contribuzione ai quali dovrebbe riferirsi la soglia minima del 60%, né se tale soglia vada computata unicamente per i lavoratori con anni di attività parasubordinata o si riferisca all’universo dei lavoratori), né gli strumenti da adottare, emerge quindi come obiettivo di policy la garanzia di una prestazione pensionistica (al netto della fiscalità) non inferiore al 60% dell’ultimo salario netto ricevuto.
Dalle simulazioni cattive notizie per i parasubordinati
Per valutare l’effettivo rischio per i lavoratori di ritrovarsi al pensionamento con una pensione inferiore alla soglia indicata nel protocollo, sono state condotte alcune simulazioni sui futuri tassi di sostituzione, al lordo e al netto dell’imposizione fiscale, di un individuo rappresentativo che ha iniziato a lavorare nel 2000 e riceve lungo l’intera carriera un incremento salariale reale annuo ad un tasso costante dell’1,5% (pari al saggio di crescita del PIL reale).
Per i lavoratori che trascorressero l’intera carriera da dipendenti, in base ai coefficienti di trasformazione attesi al 2035 in linea con le più recenti proiezioni demografiche, anche nel caso di carriere molto lunghe (ritiro a 65 anni con 40 di anzianità) il tasso di sostituzione lordo sarebbe decisamente inferiore a quello assicurato dal precedente schema retributivo (66% versus circa l’80%) e non supererebbe mai ampiamente la soglia del 60%; resterebbe anzi significativamente inferiore (53,2%) qualora ci si ritirasse in base ai requisiti minimi – “quota 97”, con almeno 61 anni d’età – previsti nel protocollo.
Il quadro cambia laddove i tassi di sostituzione siano calcolati al netto dell’imposizione sui redditi: in tal caso, nel 2035 a “quota 97” il tasso di sostituzione supererebbe il 60%, e sarebbe significativamente superiore a tale soglia con combinazioni più elevate di età ed anzianità contributive (ad esempio, raggiungerebbe il 77% a 65 anni con 40 di contribuzione).
Pur assumendo carriere lunghe e continue, qualora gli individui dovessero trascorrere l’intera carriera come parasubordinati (quindi versando aliquote minori), in base ai coefficienti attesi al 2035 la soglia del 60% non verrebbe invece mai raggiunta, nemmeno al netto dell’imposizione fiscale. Nonostante gli incrementi di aliquota decisi con la legge Finanziaria per il 2007 e indicati nel protocollo sul welfare, a “quota 97” (ovvero 61+36) i tassi di sostituzione lordi e netti dell’individuo rappresentativo sarebbero, rispettivamente, pari al 38,8% e al 48,4% e, anche ritirandosi a 65 anni con 35 di contribuzione, il tasso netto sarebbe pari al 51%.
Dalle simulazioni dei tassi di sostituzione si conferma inoltre il significativo impatto dei coefficienti di trasformazione; lo loro attesa riduzione comporta infatti un decremento di tali tassi dell’ordine dei 10 punti percentuali (di entità circa pari all’aumento che si osserva invece, per dati coefficienti, dal confronto fra tassi di sostituzione lordi e netti).
Nel valutare le prospettive previdenziali di chi lavora a lungo nel segmento parasubordinato, va d’altronde osservato come l‘introduzione recente delle principali forme contrattuali atipiche e la carenza di dati pienamente affidabili non abbiano finora consentito di misurare con precisione quanta parte dei lavoratori (e con quali caratteristiche) rischi effettivamente di rimanere “intrappolata” in tale segmento svantaggiato per un ampio periodo di tempo (con i conseguenti rischi di esclusione sociale anche da anziani).
Uno scenario inquietante, la persistenza del precariato
Alcune simulazioni condotte sui recenti dati amministrativi forniti dall’INPS, che registrano la contribuzione alle diverse gestioni pensionistiche, tra cui anche quella dei parasubordinati (la Gestione Separata), consentono di osservare per un discreto periodo le evoluzioni delle carriere dei parasubordinati – verificando se nel corso degli anni questi transitino verso status lavorativi maggiormente tutelati e remunerati – e permettono quindi di valutare se l’appartenenza allo status svantaggiato sia effettivamente solo transitoria, come auspicano i fautori della flessibilizzazione del mercato del lavoro, o mostri caratteristiche di persistenza tali da generare gravi e preoccupanti fenomeni di precarietà lavorativa.
Dall’osservazione delle transizioni dello stock dei collaboratori nel periodo 1998-2004 si rileva come per un’ampia quota di questi lo status di parasubordinato sia caratterizzato da una notevole persistenza. In particolare si rileva come a ben 4 anni dall’entrata nello status da parasubordinato la probabilità di rimanere in tale status (34,8%) sia esattamente doppia di quella di essere transitato nel lavoro dipendente privato (17,4%) e a distanza di 6 anni 3 parasubordinati su 10 versino ancora contributi solamente alla Gestione Separata.
La probabilità di trascorrere un discreto periodo dell’attività lavorativa come parasubordinato non sembra quindi affatto insignificante. Per valutare l’impatto sulle prospettive previdenziali derivante dalla quota di carriera che si trascorre nello status svantaggiato, si consideri che, nel caso di individui con carriera mista (primi anni da parasubordinato, i restanti da dipendente) basti 1/3 di attività ad aliquota ridotta ad impedire il raggiungimento della soglia prefissata del 60% netto qualora ci si ritiri a “quota 97”.
Nel valutare la congruità della scelta di fissare un tasso di sostituzione come obiettivo da garantire all’interno del sistema contributivo, bisogna inoltre fare alcune precisazioni. Come detto, nel protocollo non si specifica a quali categorie di lavoratori, mediante meccanismi di solidarietà da individuare successivamente, dovrebbe essere garantito un rapporto fra pensione e salario netto non inferiore al 60%. Non si specifica ad esempio se tale garanzia vada applicata (ed in quale misura) in maniera selettiva unicamente a chi ha versamenti discontinui o da parasubordinato oppure se, al pari di un minimo garantito, vada offerta su base universale all’intera platea dei lavoratori.
I punti da chiarire
In quest’ultimo caso emergerebbe tuttavia un evidente paradosso, derivante dalla relazione di proporzionalità inversa che nello schema contributivo sussiste, come detto, fra dinamica salariale individuale e tasso di sostituzione. In altri termini, la garanzia generalizzata di un tasso di sostituzione netto del 60% finirebbe per agevolare principalmente i lavoratori caratterizzati da una più elevata crescita retributiva. Nelle ipotesi di simulazione un lavoratore con salario reale costante o poco dinamico per l’intera carriera non riceverebbe infatti alcun tipo di integrazione (superando ampiamente il suo tasso di sostituzione netto il livello del 60%), mentre, pur a fronte di pensioni di valore assoluto ben più elevate, ai lavoratori con una buona dinamica di carriera andrebbe erogata un’ampia prestazione integrativa.
Tale paradosso andrebbe quindi attentamente considerato in fase di esplicita definizione della misura di garanzia (ad esempio rendendolo selettivo solo per alcune categorie di lavoratori, o fissando un legame fra entità dell’integrazione e livello della prestazione contributiva). Pur condividendo la meritoria attenzione posta nel dibattito di politica economica al fondamentale tema (troppo a lungo trascurato) dell’adeguatezza delle prestazioni dopo la riforma Dini, resta però il fatto che la logica del sistema contributivo limita, a meno di rilevanti specifiche e qualificazioni sulla platea di beneficiari e sulla misura dell’integrazione, la possibilità di fissare obiettivi di adeguatezza minima delle prestazioni in termini di tassi di sostituzione.
Ovviamente non si trascura qui l’obiettivo per un sistema previdenziale di garantire prestazioni che consentano ai pensionati di non discostarsi troppo dallo standard di vita abituale durante la vita lavorativa, indipendentemente dal valore assoluto di tale standard. Va tuttavia segnalato che, laddove, come sembra evidente, anche a causa di vincoli di bilancio pubblico, l’obiettivo primario del protocollo sia garantire pensioni contributive che consentano di vivere al di là di una soglia minima di inclusione sociale, la fissazione universale di tale soglia in termini di tassi di sostituzione netti non sembra la più appropriata (oltre al fatto che una misura di integrazione basata sul rapporto fra pensione e ultimo salario potrebbe indurre comportamenti distorti, quali incentivi a incrementare surrettiziamente gli ultimi salari). A tal fine si potrebbero invece immaginare, oltre a misure di contribuzione figurativa per gli anni di non lavoro e/o quelli trascorsi nel segmento svantaggiato, forme di integrazione pensionistiche basate sull’anzianità contributiva e ben più elevate degli attuali minimi (previsti, tra l’altro, unicamente per i pensionati del sistema retributivo o misto).
Ma occorrono interventi sui due fronti, lavoro e pensioni
D’altro canto, in conclusione va ricordato che, come detto in precedenza, al di là dell’impatto della redistribuzione fiscale, il sistema contributivo riflette semplicemente l’evoluzione dell’intera carriera individuale, dei relativi contributi e, più in generale, l’andamento del mercato del lavoro. Nel valutare l’adeguatezza del sistema contributivo non si può quindi ragionare sul solo funzionamento delle regole di calcolo pensionistiche. In altri termini, le dinamiche del mercato del lavoro e l’adeguatezza dei redditi da pensione rappresentano le due facce della stessa medaglia e, pertanto, le politiche previdenziali e del lavoro andrebbero definite congiuntamente, differentemente da quanto invece accaduto, in modo incoerente, con la riforma del 1995, la quale ha stabilito una proporzionalità diretta fra versamenti e prestazioni, contemporaneamente differenziando le aliquote contributive fra parasubordinati e dipendenti, proprio negli anni in cui le stesse politiche del lavoro incentivavano l’assunzione di lavoratori flessibili ad aliquota ridotta. (29.11.2007)
(*) Michele Raitano è ricercatore presso l'ISAE (Istituto Studi Analisi Economica) e il CRISS (Centro di Ricerca Interuniversitario sullo Stato Sociale). Una versione più estesa del presente articolo è contenuta nel Rapporto ISAE Politiche Pubbliche e Redistribuzione di Novembre 2