(3.4.08) Con il ritorno minaccioso dell'inflazione nello scenario sinora tranquillo dell'economia si preparano tempi duri per i pensionati, i cui trattamenti – se non intervengono modifiche legislative – rischiano di essere progressivamente erosi dall'aumento dei prezzi. Salvo in parte Berlusconi – ma con scarsa cognizione del problema – non c'è nessuno che dimostri di preoccuparsene, a cominciare dal Pd e dal sindacato, che continuano a vederlo solo in termini di età pensionabile e non di salvaguardia del potere d'acquisto dei pensionati. E se lo guardano in quest'ottica è solo in funzione delle pensioni minime: che sono trattamenti di tipo assistenziale, erogati a beneficio di chi non ha lavorato o non ha lavorato abbastanza. Mentre invece il problema riguarda la tenuta delle pensioni di cui fruiscono i dipendenti che hanno lavorato trenta o trentacinque anni, e che ora rischiano di subire un pesante, progressivo depauperamento.
Articolo di Antonio Biavati
Sono più di 16 milioni eppure nessuno parla di loro. Dei pensionati, una massa cospicua di votanti, non si occupano neanche i programmi elettorali traboccanti di promesse per tutti, dai neonati alle badanti. Per loro il programma del Pdl si limita ad annunciare un vago, quanto graduale “aumento delle pensioni a cominciare da quelle più basse”, quello del Partito democratico non spende neanche una parola. Veltroni e C. si preoccupano, come sempre, solo di quello che chiamano, con brutto neologismo, “invecchiamento attivo”, prevedendo incentivi per i lavoratori che prolungano il lavoro oltre l’età pensionabile e agevolazioni alle imprese che assumono anziani a tempo indeterminato.
Solo Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale sembra aver compreso l'importanza di questo tema e ha cominciato a dire, nelle interviste che rilascia in giro, che “le pensioni vanno adeguate al costo della vita” e che “bisogna introdurre una scala mobile delle pensioni”. Ignorando, però, che una scala mobile delle pensioni c'è già, e il problema – semmai – è quello di rafforzarla. Perché senza interventi ad hoc, il potere d'acquisto degli attuali pensionati, anche ipotizzando un'inflazione ferma al 3 %, è destinato a ridursi irrimediabilmente nel corso dei prossimi anni. Ma cerchiamo di vedere da vicino come stanno le cose.
La normativa sulla “perequazione” delle pensioni. Le regole generali
L'abolizione della scala mobile per i lavoratori non ha toccato i pensionati, e per un motivo molto semplice: non potendo contare su rinnovi contrattuali né su progressioni di carriera come i dipendenti, sarebbero vittime designate del processo inflazionistico, e senza un qualche meccanismo di difesa i loro trattamenti, specie quelli più bassi, perderebbero rapidamente il loro potere di acquisto. L'adeguamento delle pensioni previsto dalla vigente normativa presenta peraltro numerosi punti deboli. Per capire meglio distinguiamo la normativa generale, di natura strutturale, dalle regole temporanee (presumibilmente transitorie, in mancanza di reiterazione).
Secondo quanto stabilito dalla regola generale, l’importo delle pensioni è adeguato annualmente in base all’andamento dell’indice del costo della vita. L’adeguamento decorre dal mese di gennaio in via provvisoria, sulla base di un tasso di inflazione programmato, e diventa definitivo, a seguito dell’eventuale conguaglio, a consuntivo. La legge 23 dicembre 2000 n. 388 (Finanziaria 2001) ha però disposto che la percentuale di aumento per variazione del costo della vita si applica per intero solo sull'importo di pensione non eccedente il triplo della pensione minima, pari, per il 2008, a 443,12 euro al mese (5.760,56 annui). Per le fasce di importi comprese tra il triplo e il quintuplo del minimo la percentuale di aumento è ridotta al 90%; per le fasce di importo eccedenti il quintuplo del minimo è ridotta al 75%. Istituzionalmente, quindi, si è progettato un appiattimento progressivo delle pensioni, in modo da ridurre gradualmente – con l'aumento dei prezzi – il potere di acquisto di quelle più elevate.
Solo Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale sembra aver compreso l'importanza di questo tema e ha cominciato a dire, nelle interviste che rilascia in giro, che “le pensioni vanno adeguate al costo della vita” e che “bisogna introdurre una scala mobile delle pensioni”. Ignorando, però, che una scala mobile delle pensioni c'è già, e il problema – semmai – è quello di rafforzarla. Perché senza interventi ad hoc, il potere d'acquisto degli attuali pensionati, anche ipotizzando un'inflazione ferma al 3 %, è destinato a ridursi irrimediabilmente nel corso dei prossimi anni. Ma cerchiamo di vedere da vicino come stanno le cose.
La normativa sulla “perequazione” delle pensioni. Le regole generali
L'abolizione della scala mobile per i lavoratori non ha toccato i pensionati, e per un motivo molto semplice: non potendo contare su rinnovi contrattuali né su progressioni di carriera come i dipendenti, sarebbero vittime designate del processo inflazionistico, e senza un qualche meccanismo di difesa i loro trattamenti, specie quelli più bassi, perderebbero rapidamente il loro potere di acquisto. L'adeguamento delle pensioni previsto dalla vigente normativa presenta peraltro numerosi punti deboli. Per capire meglio distinguiamo la normativa generale, di natura strutturale, dalle regole temporanee (presumibilmente transitorie, in mancanza di reiterazione).
Secondo quanto stabilito dalla regola generale, l’importo delle pensioni è adeguato annualmente in base all’andamento dell’indice del costo della vita. L’adeguamento decorre dal mese di gennaio in via provvisoria, sulla base di un tasso di inflazione programmato, e diventa definitivo, a seguito dell’eventuale conguaglio, a consuntivo. La legge 23 dicembre 2000 n. 388 (Finanziaria 2001) ha però disposto che la percentuale di aumento per variazione del costo della vita si applica per intero solo sull'importo di pensione non eccedente il triplo della pensione minima, pari, per il 2008, a 443,12 euro al mese (5.760,56 annui). Per le fasce di importi comprese tra il triplo e il quintuplo del minimo la percentuale di aumento è ridotta al 90%; per le fasce di importo eccedenti il quintuplo del minimo è ridotta al 75%. Istituzionalmente, quindi, si è progettato un appiattimento progressivo delle pensioni, in modo da ridurre gradualmente – con l'aumento dei prezzi – il potere di acquisto di quelle più elevate.
Le regole temporanee
Questa normativa è stata modificata, in meglio e in peggio, da disposizioni più recenti:
- la legge di conversione del dl Bersani (articolo 5, comma 6, L. 127/2007) ha innalzato a titolo transitorio, per gli anni 2008-2010, dal 90% al 100% la percentuale di adeguamento per le fasce comprese tra 3 e 5 volte la pensione minima;
- la legge 247/2007 (il protocollo sul welfare), oltre a mettere a carico dei pensionati delle ex gestioni autonome come quella dei dirigenti industriali un contributo – chiamato ipocritamente “contributo di solidarietà” – per finanziare i costi posti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti dall'accordo sul welfare, ha stabilito che nel 2008, per tutti i trattamenti superiori a 8 volte il minimo Inps, dovrà essere sospesa l’indicizzazione ai prezzi. Un contributo imposto ai cosiddetti “pensionati ricchi” per consentire l'abolizione dello scalone a beneficio di un ristretto numero di dipendenti. Anziché prelevare le risorse necessarie, come sarebbe stato giusto, attraverso la fiscalità generale, si è voluto mettere le mani nelle tasche dei titolari di pensioni non certo stratosferiche (il limite da cui inizia la penalizzazione, come abbiamo detto, è di circa 3.500 euro lordi), all'insegna dello slogan “anche i ricchi piangano”. Così pensioni già gravate di circa il 40% di imposte sono state ulteriormente penalizzate, mentre naturalmente i titolari di rendite finanziarie anche estremamente elevate – questi sì veramente “ricchi” – continuano ad essere tassati al 12,50 per cento. Sono trovate intelligenti come queste che fanno capire perché il Pd di Veltroni abbia deciso di correre da solo.
Cosa sarà delle pensioni nei prossimi anni
Il quesito da porsi ora riguarda quale potrà essere il futuro delle pensioni rispetto ad un tasso di inflazione che nell’ultimo anno è praticamente raddoppiato, collocandosi in prossimità del 3%.
Per rispondere a questa domanda si è ipotizzato uno scenario tendenziale di dieci anni, dal 2008 al 2018, caratterizzato da un tasso d’inflazione pari al 3% annuo. Su tale sfondo è stata proiettata l’evoluzione, sulla base delle regole vigenti, di quattro diversi livelli mensili di pensione 2008: 1000, 2000, 3000 e 5000 euro.
I risultati della simulazione possono essere sintetizzati nei termini seguenti :
- come si vede chiaramente anche dal grafico, soltanto il più basso livello di pensione (1000 euro al mese lordi, 13.000 l’anno) riesce a conservare inalterato il proprio potere di acquisto. Per l’intero periodo, infatti, il sistema di perequazione vigente garantisce una copertura piena rispetto all’inflazione “ufficiale”;
- la pensione di 2000 euro, protetta integralmente fino al 2010 per effetto della L. 127/2007, successivamente inizia a subire una decurtazione che dai 2 euro al mese del 2011 giunge ai 15 euro del 2018 (poco meno di un punto percentuale). Nell’insieme dei dieci anni considerati, la perdita cumulata sfiora i 1000 euro;
- la riduzione di potere d’acquisto assume un livello significativo per la pensione che nel 2008 raggiunge i 3 mila euro lordi al mese. L’abbattimento al 75% del grado di copertura rispetto all’inflazione interessa circa un terzo del trattamento di quiescenza e tende a progredire con gli anni. Accade così che, a fronte di una pensione nominale che cresce fino ai 3935 euro del 2018, la pensione reale si riduca in misura crescente: dai 5 euro mensili del 2009 (-0,17%) ai 72 euro del 2018 (-2,38%); con un taglio cumulato pari, nel decennio, a 4.881 euro;
- ma la perdita più sostenuta si registra per le pensioni alte, di pari passo con la riduzione del grado di copertura rispetto all’inflazione. La pensione di 5 mila euro mensili supererà nel 2018 i 6400 euro; sempre che non si rinnovi la misura di sospensione dell’indicizzazione adottata per il 2008. Dietro l’illusione monetaria, tuttavia, si nasconde una realtà che, a fine periodo, evidenzierà le seguenti cifre: riduzione fino al 4,25%; perdita mensile compresa fra i 20 euro del 2009 e i 212 (2.800 annui circa) del 2018; perdita cumulata di oltre 15 mila euro.
DIECI ANNI DI TAGLI (valori in euro)
(*) arrotondamento all'euro
Conclusioni
I dati che emergono da queste proiezioni sono preoccupanti. Se rimane in vigore la normativa attuale, una pensione di 3000 euro lordi, pari a meno di 2000 euro netti al mese, è destinata a subire una decurtazione, nell'arco dei prossimi dieci anni, di quasi 5000 euro (esattamente 4881). Ma questa cifra potrebbe aumentare, anche di molto, qualora l'inflazione, trainata dall'aumento del petrolio e delle materie prime, dovesse prolungare la curva ascendente che ha presentato nell'ultimo anno. Già gli ultimi dati ci dicono di un'inflazione che ha sorpassato il muro del 3 per cento. E il paniere dell'Istat, si sa, sottovaluta l'effetto degli aumenti – di gran lunga superiori alla media – delle tariffe e dei prodotti alimentari di base che costituiscono la parte principale dei consumi dei pensionati, specie dei meno abbienti. Un minimo di giustizia distributiva dovrebbe portare a questo punto all'istituzione di un paniere specifico per la categoria dei pensionati, di cui finalmente lo stesso Istat comincia a parlare, ma è dubbio che senza una forte spinta politica questo progetto possa diventare realtà.
Tempi cupi, come dicevamo, si prospettano dunque per tutti i pensionati, la cui coperta rischia di diventare sempre più corta. Sarebbe il caso che lo schieramento che vincerà le elezioni ne prendesse atto nei suoi programmi di governo. Finora anche per colpa del sindacato, propenso a considerare i pensionati solo come fonte di finanziamento e come volenterosi figuranti da portare a Roma per le dimostrazioni, di pensioni si è parlato – e si parla tuttora, come dimostra il programma elettorale del Partito democratico – sempre in funzione delle regole che disciplinano il pensionamento dei lavoratori attivi, mai in funzione del trattamento economico dei pensionati in essere. E quando lo si è fatto, è stato soltanto in funzione di un innalzamento delle pensioni minime come se questo fosse l'unico problema da porsi. Dimenticando, tra l'altro, che le pensioni minime sono trattamenti di tipo assistenziale, erogati a beneficio di chi non ha lavorato o non ha lavorato abbastanza per conseguire un trattamento superiore.
I calcoli che abbiamo sviluppato dimostrano invece che esiste un problema che riguarda le pensioni superiori al minimo, cioè quelle percepite da dipendenti che hanno prestato la loro attività lavorativa per trenta, trentacinque o quaranta anni e che – qualora l'inflazione dovesse arrivare nuovamente a livelli del 3, 4, 5 per cento – vedrebbero i loro trattamenti subire una continua e pesante riduzione, senza possibilità di difendersi.
Il problema – contrariamente a quanto ritiene il Pdl, il quale ha almeno il merito di averlo sollevato – non è solo o non è tanto quello di “aumentare le pensioni, a cominciare dalle più basse”, ma è quello di evitare, quantomeno, che le pensioni – tutte – siano condannate a un progressivo impoverimento.
I dati che emergono da queste proiezioni sono preoccupanti. Se rimane in vigore la normativa attuale, una pensione di 3000 euro lordi, pari a meno di 2000 euro netti al mese, è destinata a subire una decurtazione, nell'arco dei prossimi dieci anni, di quasi 5000 euro (esattamente 4881). Ma questa cifra potrebbe aumentare, anche di molto, qualora l'inflazione, trainata dall'aumento del petrolio e delle materie prime, dovesse prolungare la curva ascendente che ha presentato nell'ultimo anno. Già gli ultimi dati ci dicono di un'inflazione che ha sorpassato il muro del 3 per cento. E il paniere dell'Istat, si sa, sottovaluta l'effetto degli aumenti – di gran lunga superiori alla media – delle tariffe e dei prodotti alimentari di base che costituiscono la parte principale dei consumi dei pensionati, specie dei meno abbienti. Un minimo di giustizia distributiva dovrebbe portare a questo punto all'istituzione di un paniere specifico per la categoria dei pensionati, di cui finalmente lo stesso Istat comincia a parlare, ma è dubbio che senza una forte spinta politica questo progetto possa diventare realtà.
Tempi cupi, come dicevamo, si prospettano dunque per tutti i pensionati, la cui coperta rischia di diventare sempre più corta. Sarebbe il caso che lo schieramento che vincerà le elezioni ne prendesse atto nei suoi programmi di governo. Finora anche per colpa del sindacato, propenso a considerare i pensionati solo come fonte di finanziamento e come volenterosi figuranti da portare a Roma per le dimostrazioni, di pensioni si è parlato – e si parla tuttora, come dimostra il programma elettorale del Partito democratico – sempre in funzione delle regole che disciplinano il pensionamento dei lavoratori attivi, mai in funzione del trattamento economico dei pensionati in essere. E quando lo si è fatto, è stato soltanto in funzione di un innalzamento delle pensioni minime come se questo fosse l'unico problema da porsi. Dimenticando, tra l'altro, che le pensioni minime sono trattamenti di tipo assistenziale, erogati a beneficio di chi non ha lavorato o non ha lavorato abbastanza per conseguire un trattamento superiore.
I calcoli che abbiamo sviluppato dimostrano invece che esiste un problema che riguarda le pensioni superiori al minimo, cioè quelle percepite da dipendenti che hanno prestato la loro attività lavorativa per trenta, trentacinque o quaranta anni e che – qualora l'inflazione dovesse arrivare nuovamente a livelli del 3, 4, 5 per cento – vedrebbero i loro trattamenti subire una continua e pesante riduzione, senza possibilità di difendersi.
Il problema – contrariamente a quanto ritiene il Pdl, il quale ha almeno il merito di averlo sollevato – non è solo o non è tanto quello di “aumentare le pensioni, a cominciare dalle più basse”, ma è quello di evitare, quantomeno, che le pensioni – tutte – siano condannate a un progressivo impoverimento.