Una riforma dei contributi che tocchi anche i fondi pensione e il sistema previdenziale è indispensabile se vogliamo evitare le iniquità sociali prodotte da un mercato del lavoro in cui le imprese sono incentivate dallo Stato a privilegiare i rapporti precari. Ecco alcune proposte su cui il centrosinistra farebbe bene a riflettere
La riforma dei fondi pensione complementari, alimentati anche – ma non solo – dallo smobilizzo del TFR, dovrebbe chiudere, almeno per il momento, un ciclo di radicali riforme che hanno interessato il sistema previdenziale pubblico, quello integrativo privato e il mercato del lavoro.
Sotto certi profili le tre riforme interagiscono tra loro, producendo alcuni risultati che giudico perversi sia in termini di iniquità orizzontale (tra categorie) che verticale (tra livelli di reddito). Vorrei ricordarli brevemente per poi presentare una proposta che potrebbe superare i difetti della situazione attuale e centrare diversi obiettivi desiderabili: equità, neutralità, riduzione della precarietà del mercato del lavoro.
La riforma del sistema pensionistico pubblico, realizzata in Italia essenzialmente nel 1995, fu introdotta principalmente per esigenze di sostenibilità finanziaria, di breve e lungo periodo. Con l’occasione si tentò anche, meritevolmente, di predisporre un sistema (“contributivo”, a ripartizione, ispirato alla capitalizzazione) che superasse le enormi iniquità distributive di quello precedente (“retributivo”, sempre a ripartizione) e consentisse di identificare meglio eventuali azioni redistributive dello Stato. Ne derivò un sistema che, se si prescinde dalle enormi disparità che ha conservato nel lunghissimo periodo di transizione e dagli oneri addizionali sui giovani per finanziare tale transizione, ha superato quelle iniquità e posto le basi per un sostanziale equilibrio finanziario di lungo periodo del bilancio previdenziale (contributi meno prestazioni).
Effetto collaterale negativo, di non poco conto, è stato però quello di prevedere livelli di pensione e percentuali di tale pensione sull’ultima retribuzione (“tassi di copertura”) molto più bassi che in precedenza, ed in assoluto spesso insufficienti a garantire un reddito sufficiente e/o soddisfacente. In pratica si è stabilito ed accettato uno scambio tra riequilibrio del bilancio pubblico (più precisamente del sottosistema previdenziale) e forte riduzione delle pensioni future.
Come era prevedibile, si è sviluppato contestualmente un forte dibattito, con ampio consenso sull’esigenza di sviluppo di una previdenza integrativa, detta secondo pilastro, che nel raccogliere ulteriore risparmio dagli interessati consentisse di attenuare (ma anche “occultare”) la forte riduzione dei trattamenti pensionistici.
Ma, poiché la percezione dell’entità della riduzione della pensione attesa è ridotta, e la disponibilità ad accantonare ulteriori quote del reddito su un sistema previdenziale integrativo non troppo elevata, si decise, anche qui in modo bipartisan, di incentivare fiscalmente l’accantonamento di nuovo risparmio da destinare alla previdenza integrativa.
Con la legislatura a maggioranza di centro sinistra si predispose così un meccanismo che rendeva più conveniente l’allocazione del risparmio in un fondo previdenziale piuttosto che in un altro investimento finanziario (ed a maggior ragione nel sistema previdenziale pubblico), fissando l’aliquota di tassazione del rendimento annuo da accantonamento previdenziale all’11% piuttosto che al 12,5%, e limitando perciò la tassazione progressiva Irpef (che presentava aliquote marginali effettive molto superiori) alla sola quota di pensione non originata dai rendimenti già tassati all’11%. Questa agevolazione fiscale può essere vista come un’allocazione di risorse pubbliche a favore di un obiettivo desiderabile. Va detto, peraltro, che la tassazione ridotta all’11% costituiva anche un maggior gettito di breve e medio periodo rispetto ad un accantonamento completamente detassato ed una futura pensione completamente tassata in Irpef.
Gli ultimi interventi
Con la nuova legislatura, a maggioranza di centro destra, si è deciso di rafforzare, e di molto, gli incentivi fiscali per la previdenza complementare, anche perché le adesioni ai nuovi fondi erano state in realtà modeste.
Col Decreto legislativo approvato nelle ultime settimane, ma modificabile nel prossimo biennio prima della sua entrata in vigore, si è così arrivati a prevedere il mantenimento della tassazione dell’11% sui rendimenti maturati dai fondi pensione (esigenze di cassa lo hanno probabilmente suggerito), ma con una tassazione separata al 9%, per chi contribuisce per almeno 35 anni, della quota pensione prima soggetta ad Irpef (la quale, ricordiamo, prevede un’aliquota marginale effettiva, sul reddito da pensione integrativa, dal 30% al 43% ed anche oltre, se si tiene conto delle addizionali locali).
Si tratta perciò, a regime, di un ammontare enorme di risorse pubbliche che vengono “spese” per incentivare il sistema previdenziale integrativo e privato, con effetti redistributivi altrettanto ingenti, in quanto sostituiscono una tassazione progressiva con una proporzionale con aliquota molto bassa, a favore dei redditi più elevati e di chi può allocare maggiori quote del proprio risparmio sul secondo pilastro, in quanto obbligato a versare minori percentuali contributive al sistema pubblico.
I parasubordinati, un presente a basso reddito ma un futuro non migliore
Negli stessi anni sono aumentate nettamente sul mercato del lavoro le figure dei cosiddetti parasubordinati, caratterizzati da basse retribuzioni e, soprattutto, basse contribuzioni previdenziali (19,3% dal 2004), pari a poco più della metà di quelle accantonate per un dipendente (32,7%).
Un primo effetto di ciò è che qualsiasi datore di lavoro viene “incentivato” dal sistema pubblico ad utilizzare lavoro flessibile parasubordinato piuttosto che dipendente, risultandone un effetto distorsivo (verso una maggiore quota di lavoro precario) rispetto alle scelte che sarebbero state fatte in regime di neutralità fiscale e contributiva.
Un secondo effetto è che il mix di bassi livelli di reddito (che consentono un risparmio previdenziale aggiuntivo modesto), e livelli di contribuzione altrettanto modesti e per di più saltuari (stante la precarietà di queste figure lavorative), fa prospettare per esse un futuro pensionistico spesso vicino alle condizioni di povertà e molto peggiore della condizione lavorativa attuale.
C’è allora da chiedersi se è positivo per la collettività ridurre drasticamente con una riforma i trattamenti pensionistici attesi, al fine di riequilibrare il bilancio pubblico, e, quasi contestualmente, allocare ingenti risorse pubbliche, peraltro neppure coperte finanziariamente (cosa peraltro non necessaria, trattandosi di minori entrate che si verificheranno oltre il triennio), a sostegno di un sistema integrativo privato che presenta la caratteristica di favorire quasi esclusivamente i livelli elevati di reddito (proprio quelli, cioè, che avrebbero meno bisogno di questo sostegno finanziario pubblico), e chi, come gli autonomi ed i collaboratori a medio ed alto reddito effettivo, è tenuto a versare alla previdenza obbligatoria basse percentuali e può perciò allocare il restante risparmio contributivo su una previdenza integrativa tassata in misura molto inferiore.
Il concetto può essere spiegato con un esempio. Un dipendente ed un professionista a medio/alto reddito che destinassero la stessa quota di reddito agli accantonamenti previdenziali, ad es. il 33% (la percentuale di contributi obbligatori del dipendente), subirebbero sulla pensione trattamenti fiscali molto diversi: il dipendente vedrebbe la sua pensione interamente tassata in Irpef (attorno al 40%), mentre il professionista pagherebbe l’Irpef solo su un terzo circa della sua pensione, riservando il 9% di tassazione separata alla restante maggior parte. Ne deriverebbero pensioni nette molto e immotivatamente differenziate.
Una riforma dei contributi per correggere pensioni e mercato del lavoro
A partire da queste necessarie considerazioni di quadro emerge l’utilità di intervenire sul sistema previdenziale pubblico e integrativo al fine di correggere al tempo stesso sia i difetti interni a questi sistemi sia quelli presenti nel mercato del lavoro.
L’idea è quella di:
- equiparare i contributi di qualsiasi figura lavorativa, stabilendo la neutralità del sistema rispetto alle scelte di combinazione delle diverse tipologie di lavoro fatte dall’imprenditore;
- rendere più omogenei i trattamenti fiscali della previdenza obbligatoria e complementare, riducendo gli enormi vantaggi concessa a quest’ultima (a regime);
- utilizzare, infine, parte delle risorse non più allocate sul secondo pilastro per sostenere, in maniera assistenziale ma trasparente, le sole figure dei parasubordinati a carriera intermittente e a forte rischio di futura povertà.
Più in dettaglio la riforma potrebbe essere così congegnata:
- equiparazione sostanziale dell’aliquota contributiva di collaboratori, autonomi e di tutte le altre figure di parasubordinati (ad esempio: tirocini, assegni di ricerca, collaborazioni occasionali, ma la lista è lunghissima…), a quella dei dipendenti. Se per i collaboratori ciò potrebbe concretarsi nella stessa aliquota di contribuzione (32,70%), sempre ripartita tra un terzo a carico del lavoratore e due terzi a carico del datore, per gli autonomi si dovrebbe tener conto della diversa base imponibile, costituita dal reddito complessivo e, dunque, analoga al “costo del lavoro” del dipendente (e non alla retribuzione lorda). Per questi motivi, visto il peso degli oneri sociali a carico del datore, l’aliquota di indifferenza per un autonomo potrebbe essere pari al 25%.
- riforma della previdenza complementare che mantenga la tassazione agevolata dei rendimenti (all’11% o meno) e quella ordinaria Irpef della quota pensione residua oppure, meglio, detassi completamente i rendimenti del fondo e tassi l’intera pensione in Irpef, come avviene per la pensione da previdenza obbligatoria.
- Correttivo del sistema previdenziale, consistente nell’attribuire contributi previdenziali virtuali (agganciati all’ultimo compenso annuo) ai collaboratori che risultino avere limitati periodi scoperti ai fini previdenziali. Per evitare usi elusivi o incentivi al sommerso, la copertura attraverso contribuzioni virtuali potrebbe essere limitata ai soggetti già collaboratori per un certo periodo (ad es. tre anni) e per un periodo non superiore a una annualità ogni tre anni lavorati. Non sarebbe inoltre da escludere, viste le risorse liberate, qualche ulteriore aggiustamento in grado di contrastare trattamenti pensionistici contributivi troppo modesti.
L’interazione tra queste tre modifiche sarebbe di impatto notevole ed auspicabile da diversi punti di vista:
- il carico previdenziale uniforme tra diverse figure professionali eliminerebbe la distorsione di ordine parafiscale nella scelta dei vari input di lavoro: dipendente, collaboratore continuativo, altre forme parasubordinate, autonomo con partita Iva. Il ricorso a queste figure “anomale” di collaborazione, piuttosto che alla regolare assunzione di dipendenti, sarebbe perciò ricondotto a fisiologiche e libere scelte di combinazione ottimale dei fattori di produzione (attualmente, invece, a seguito di una legislazione fiscale e contributiva di favore, molte imprese non solo privilegiano assunzioni di tipo precario ma addirittura spingono propri collaboratori ad acquisire una partita Iva e figurare come autonomi anche quando, di fatto, continuano a svolgere una funzione sostanzialmente dipendente)
- l’aumento dei contributi effettivamente accantonati,che costituirebbe un maggior costo ripartibile tra datore e occupato, accrescerebbe anche in maniera consistente i trattamenti pensionistici attesi da chi oggi versa contributi di scarsa entità. Indirettamente, ciò potrebbe tornare a vantaggio dello stesso bilancio assistenziale pubblico, che altrimenti sarà costretto in futuro ad intervenire massicciamente su ampie aree di povertà
- l’intervento “assistenziale” mediante contributi virtuali, per le sole figure effettivamente “precarie” e altalenanti tra lavoro nero e non, coniugherebbe un costo contenuto per il bilancio pubblico con un beneficio mirato. Eventuali altre misure correttive del sistema pensionistico, in senso agevolativo per i più poveri, potrebbero contribuire allo scopo
- il profilo temporale del bilancio previdenziale vedrebbe crescere in maniera significativa le entrate contributive dei prossimi decenni per i quali è atteso, anche per motivi demografici, uno sbilancio particolarmente forte
- il trattamento pensionistico netto da imposte diventerebbe, a parità di reddito, sostanzialmente uniforme tra le diverse categorie, mentre dal punto di vista redistributivo tutti i percettori di pensione continuerebbero a subire il prelievo progressivo Irpef.
- le entrate fiscali, infine, eviterebbero nel lungo periodo di subire un tracollo originato dall’aliquota sostitutiva del 9% (anziché di quella progressiva Irpef) sulle quote di pensione.