Successivamente l’Ilor veniva fortemente contestata dai professionisti che riuscirono ad ottenere una sentenza della Corte costituzionale n. 42 del 1980 che esentava ed imponeva il rimborso per i lavoratori autonomi che non utilizzassero beni strumentali di una certa rilevanza, creando un enorme carico di lavoro per gli Uffici finanziari e le Commissioni tributarie. Nel anni 1984 e 1986, a tappe, si arriva prima alla introduzione di restrizioni alla deducibilità degli interessi passivi in presenza di interessi attivi esenti nei bilanci delle imprese e, quindi, superando quello che era stato fino ad allora un tabù, alla tassazione degli interessi sui titoli del debito pubblico delle persone fisiche e giuridiche, fino ad allora esenti, con ritenuta alla fonte secca prima del 6,25 e poi del 12,5% non tanto perchè si anticipavano gli effetti della globalizzazione quanto perché si voleva contenere il processo di finanziarizzazione delle imprese, arbitraggi e ampi fenomeni elusivi attraverso i titoli del debito pubblico.
Sempre nella linea della discriminazione qualitativa dei redditi nel 1993 entrava in vigore l’imposta comunale sugli immobili nella logica del rafforzamento dell’autonomia tributaria dei Comuni e del migliore ancoraggio del prelievo al principio del beneficio e/o controprestazione per i servizi resi dagli enti locali. Consapevole o no, quella scelta era corretta anche in relazione al vincolo imposto dalla concorrenza fiscale tra gli Stati. Bisogna infatti tenere conto che la globalizzazione dei mercati e l’adesione dell’Italia al regime di piena libertà dei movimenti di capitale e ancor prima all’obiettivo del grande mercato unico europeo imponeva una tassazione agevolata del fattore produttivo relativamente più mobile: il capitale finanziario. La globalizzazione infatti imponeva a tutti di abbandonare le indicazioni degli economisti classici sulla discriminazione qualitativa dei redditi. I primi a rendersene conto sono i Paesi scandinavi che introducevano la c.d. dual income tax che in pratica significa lasciare fuori dalla progressività diretta e personale i redditi di capitale o rendite finanziarie.
Le riforme si valutano a parità di gettito. Nel caso italiano in cui non si riesce a tagliare la spesa pubblica e con bilancio storicamente sempre in deficit, è chiaro che ad una riduzione di imposta sui fattori produttivi mobili deve corrispondere un aumento di quelle sui fattori produttivi fissi o meno mobili: beni immobili – tra cui le case – e il lavoro soprattutto quello dipendente. Se non si riesce ad aumentare il livello del prelievo sulle rendite finanziarie – vedi lo stallo della proposta governativa al riguardo – è chiaro che se si riducono le tasse sulle case bisognerà aumentare quelle sul reddito di lavoro dipendente. Queste conseguenze sono chiare agli studenti che seguono il corso introduttivo di scienza delle finanze ma, a quanto pare, non entrano in testa ai politici demagoghi e populisti di destra e sinistra. Non paghi di avere ottenuto tempo fa l’esenzione della rendita catastale dell’abitazione principale dall’Irpef, ora reclamano a gran voce, l’esenzione della prima casa dall’ICI. Perché demagoghi e populisti insieme quelli di destra e di sinistra? Perché se la misura venisse assunta a favore di tutti costerebbe molto e si tradurrebbe in un ennesimo grosso regalo alla rendita immobiliare che, negli ultimi sette anni, ha avuto uno sviluppo paragonabile a quello avvenuto negli USA, dove c’è stata e c’è una vera e propria bolla immobiliare.
Demagoghi e populisti perché, in realtà i più bisognosi non riceverebbero alcun vantaggio. Infatti in cambio di qualche centinaio di euro di ICI risparmiata vedrebbero aumentare il loro carico tributario diretto e/o indiretto. Visto che un altro importante fattore rigido è il lavoro dipendente, nel medio termine, l’aumento delle altre imposte andrebbe ad incidere proprio su quelle categorie più deboli che, a parole, si vorrebbero aiutare. Al riguardo, occorrerebbe notare che già con la LF 2007 è in parte attuato un provvedimento di riduzione del c.d. cuneo fiscale, ossia, di riduzione del costo del lavoro per favorirne il maggiore impiego. In prospettiva la riduzione delle contribuzioni sociali mentre far venir meno entrate agli enti previdenziali potrebbe essere neutralizzata dall’aumento delle imposte dirette sul reddito di lavoro o da quelle indirette sui consumi.
L’esenzione generalizzata della prima casa dall’ICI sarebbe quindi regressiva e ancor più tale se il legislatore non fa alcunché per i soggetti che non possiedono una casa e che, negli ultimi decenni, hanno dovuto pagare canoni crescenti, senza la possibilità di portare alcunché in detrazione. Vedi a questo riguardo la proposta della Ministra Melandri di prevedere nell’ambito di un c.d. piano casa, una detrazione del 19% del canone di affitto per l’inquilino parallela a quella del 19% degli interessi sul mutuo per l’acquisto della prima casa. La proposta Melandri è motivata da buone intenzioni ma debole. A ben riflettere, infatti, occorre essere consapevoli che se c’è scarsità di case da affittare e rigidità nell’offerta di nuove case, nel breve e medio termine, la detrazione di una quota del canone va a beneficiare innanzitutto la rendita immobiliare e solo quando aumenterà l’offerta di case da affittare potranno abbassarsi sia i valori delle case e i canoni. Questo è un punto fondamentale che il piano casa dovrebbe considerare.
La detrazione al 19% del canone andrebbe a cumularsi con un altro vantaggio che potrebbe materializzarsi se si adottasse un’altra proposta poco meditata all’esame nell’ambito del c.d. piano casa, ossia, quella di tirare fuori dalla progressività dell’Irpef anche i canoni delle case date in affitto per sottoporli ad un’aliquota sostitutiva agevolata del 20% nella speranza (meglio: pio desiderio) che, così facendo, quelli che occultano in tutto o in parte i fitti incassati si decidano a dichiararli. Resto convinto che, al riguardo, il vero problema non è uno di aliquota ma di accertamento e controlli efficaci. Far finta di risolverlo con l’aliquota agevolata è illusorio e finirebbe di nuovo con l’ingrassare ulteriormente la rendita immobiliare. Se dovesse passare tale proposta in pratica quasi tutti i redditi di fabbricati uscirebbero dalla progressività. Questa inesorabilmente si applicherebbe a tutto il reddito di lavoro dipendente prodotto. Perché? Lo vediamo subito.
Come noto, l’Italia è probabilmente l’unico paese “avanzato” che applica gli studi di settore non per accertare ma per stimare i redditi di impresa e di lavoro autonomo. Il risultato è che piccoli e medi imprenditori, professionisti ed altri lavoratori autonomi pagano le imposte dirette (formalmente progressive) non sui redditi effettivi prodotti ma sulla base di ricavi stimati (più precisamente: concordati) notevolmente più bassi di quelli reali (in buona parte occultati). In pratica queste importanti categorie di contribuenti si esercitano a manipolare le scritture contabili per dichiarare redditi imponibili largamente al di sotto di quelli veri, non di rado, inferiori a quelli dei loro dipendenti e collaboratori. I motivi per cui da 23 anni si avanti in questa direzione sono gli stessi che motiverebbero l’agevolazione sul reddito proveniente dalle case, negozi e capannoni dati in affitto. Certo formalmente la progressività resta per i soci delle società di persone e i lavoratori autonomi ma essa morde molto meno del dovuto se si considera l’occultamento del reddito e la possibilità di molti di questi soggetti di operare l’income splitting con i parenti ed affini. Le ultime stime ufficiali, rese note la settimana scorsa e definite imbarazzanti da Visco, vedono l’evasione fiscale e l’economia sommersa in crescita. Secondo me, esse costituiscono la prova che la strategia seguita anche da questo governo non è quella adatta e che gli sbandierati successi in materia di contrasto all’evasione fiscale non sono tali nella quantificazione assunta e comunque del tutto precari. Mi permetto di rinviare a precedenti blog in cui ho trattato più a lungo questi problemi.
In conclusione. Se si adottasse la proposta avanzata così insistentemente da Rutelli, si eliminerebbe quel che rimane della discriminazione qualitativa dei redditi tra l’altro erodendo la base imponibile del più importante tributo dei Comuni.
La proposta tassazione sostitutiva per i fitti delle case locate porterebbe un altro duro colpo all’Irpef. Si andrebbe avanti nella logica dell’imposta cedolare per cui ogni categoria di reddito avrebbe un trattamento particolare abbandonando definitivamente l’idea di una base imponibile tendenzialmente onnicomprensiva, sistematicamente erosa dal legislatore fiscale, e a cui non crede più nessuno.
Il costo della prima proposta è stimato in tre miliardi e così quello della seconda. Solo queste due misure assommano 6 miliardi. Tutti eventualmente regalati alla rendita immobiliare. Ma il fantomatico piano casa, con che lo finanziamo?