Il volume contiene, poi, una bellissima conferenza sulle ninne nanne spagnole. Quattro brevi testi giovanili, che però danno già il sapore di quello che sarà il mondo poetico di Lorca. E, infine, due brevi “presentazioni” che testimoniano l’affinità spirituale tra Federico e Pablo Neruda.
L’idea di questa pubblicazione l'ho coltivata a lungo: risale a una ventina di anni fa, quando nella casa natale di Lorca, a Fuente Vaqueros, vicino Granada, trovai un’edizione curata e stampata in maniera artigianale del discorso “Sui libri”. Poi,l’occasione vera di pubblicazione è stata quando sono diventato editore, cioè un anno fa.
Come traduttore avevo avuto precedenti esperienze con autori di valore assoluto, come Melville e Stevenson. Melville è un grandissimo. Immergersi nel “Moby Dick”, come ho fatto io, vuol dire amare l’oceano dell’odio, la follia che sta sulla frontiera della ragione. Navigare in uno straordinario poema in forma di romanzo. Stevenson è un forte narratore. Lo amo molto e mi sono appassionato ai suoi “Ritratti e memorie”. Tradurre Lorca è, però, un’esperienza erotica e politica al tempo stesso; è aprire la porta su un mondo nel quale la poesia è musica ed è dolore, nel quale l’agonia è fermento e sogno, nel quale c’è costantemente un “altro” a cui comunicare il proprio amore infinito, che è gioia di vivere ed è disperazione. Quando mi capita di parlarne in pubblico, non riesco mai a evitare di recitare, in spagnolo, in italiano e, se potessi, in cento altre lingue, la poesia per me più bella che mai sia stata scritta da essere umano, la “Gacela del amor desesperado” (puoi leggerla qui). Perfezione stilistica che dice tutto quanto sia possibile dire del sentimento amoroso. Mi viene in mente, tra i mille echi della poesia lorchiana, l’ultimo disco, meraviglioso, inciso prima di morire, di Marisa Sannia, intitolato “Rosa de papel”, con testi interamente composti da poesie di Federico García Lorca. A dimostrazione di come la grande arte continui sempre a ispirare grandi artisti e grandi operazioni culturali.
Lorca l'avevo scoperto prima dei diciotto anni, quando leggevo i primi poeti dei quali mi andavo via via innamorando. Lorca lo riconobbi subito, come un fratello. Sarebbe stato il compagno segreto preferito. La mia vita sarebbe stata sicuramente diversa senza la sua poesia. All’università, poi, ho studiato con Piero Menarini, un grande studioso di García Lorca. Mi è sempre sembrato un segno del destino. Lorca rappresenta in modo completo la mia idea di poesia. Il rigore nitido dei versi (si pensi alla celebrazione di Luis de Gongora, nel ’27), frutto di studio, riflessione e ascolto, unito a una grande sensibilità umana e sociale (si pensi alla Barraca, il teatro popolare che Federico portava nei paesi della Spagna più povera). Penso a una poesia fatta delle cose che si vedono ogni giorno, e che diventano universali. Penso a versi come “verde que te quiero verde”, intraducibili, ma che contengono tutta la forza di una voce nitida che si sente arrivare dalle profondità insondate del tempo, come una musica, o un profumo, che sale dalle origini della terra e si insinua nelle pieghe dell’animo umano.
Il “Discorso” da me tradotto è breve e intenso in tutte le sue parti, non diversamente da una sua poesia. E mette insieme, con una grande apertura spirituale, le grandi opere dei mistici e dei santi con quelle dei rivoluzionari: il “Cantico spirituale” di San Giovanni della Croce, opera somma della poesia spagnola, con i libri di Tolstoj; “La città di Dio” di Sant’Agostino e lo “Zarathustra” di Nietzsche con “Il Capitale” di Marx. Perché – dice Federico – "tutte queste opere concordano in un punto: l’amore per l’umanità e l’innalzamento dello spirito. In tal senso esse si confondono e si abbracciano in un ideale supremo”.
E mi piace proporre quest'altra citazione dal “Discorso sui libri”:
“Capita, a volte, che un popolo si addormenti come l’acqua di uno stagno in un giorno senza vento. In quei casi la superficie dell’acqua non è turbata da un benché minimo movimento. Le rane dormono sul fondo e gli uccelli riposano immobili sui rami all’intorno. Ma, d’un tratto, lanciate una pietra. Vedrete un’esplosione di cerchi concentrici, di onde circolari che si allargano, sovrapponendosi le une alle altre, fino a frangersi contro le rive dello stagno. Vedrete l’acqua in subbuglio totale, un fuggire di rane in tutte le direzioni, un’inquietudine lungo tutte le rive. Persino gli uccelli che dormivano sui rami ombreggiati, spiccano il volo a stormi verso l’azzurro. A volte un popolo dorme come l’acqua di uno stagno in un giorno senza vento, e allora un libro o alcuni libri possono scuoterlo e renderlo inquieto, possono mostrargli nuovi orizzonti di emancipazione e di solidarietà”.
E aggiunge, verso la fine, questo auspicio: “Che la biblioteca, in questo bellissimo paese dove ho avuto l’onore di nascere, serva a far regnare la pace, l’inquietudine spirituale e l’allegria.”
Forse trascinato da pensieri come questo ho iniziato a fare l’editore. Forse anche in questa mia scelta c’è lo zampino di Federico. Forse i libri sono veramente l’unica possibilità per raggiungere la pace, l’inquietudine spirituale e l’allegria.