Massimo Romano, 54 anni, palermitano. E’ Direttore generale del Comune di Bologna. Lo ha voluto alcuni mesi fa il sindaco Sergio Cofferati per affidargli la macchina organizzativa del comune felsineo. Ma per chi si occupa di finanza pubblica, con un occhio di particolare attenzione per le tasse, Massimo Romano è soprattutto il dirigente che per anni, ai vertici dell’Amministrazione finanziaria, ha cercato di far quadrare i conti della complessa struttura tributaria italiana. Primo Direttore dell’Agenzia delle Entrate, la struttura fiscale nata per effetto della riforma che nel 2000 ha trasformato il volto della Pubblica Amministrazione, Romano ha abbandonato l’incarico un anno dopo. Nel 2001, con il cambio di legislatura e di maggioranza politica, il ministro Tremonti aveva bisogno di uomini più funzionali alle proprie strategie tributarie. Il suo punto di osservazione sui fatti del fisco italiano è privilegiato.
Quale è la sua opinione su questi anni?
Nella passata legislatura avevamo cominciato un’opera di normalizzazione del fisco italiano. La gente aveva cominciato a pagare le tasse con maggior consapevolezza, aveva la sensazione che le regole venivano rispettate, che l’amministrazione cominciava ad avere la capacità di controllare. Ma in maniera meno traumatica per il contribuente. Penso, ad esempio, alla riforma delle sanzioni, a meccanismi come l’accertamento con adesione che aveva abbattuto drasticamente il contenzioso. Passammo infatti da 3 milioni di controversie del ‘96 a 1 milione nel 2001. Questo diede grandi risultati dal punto di vista dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali con rimbalzo positivo sul gettito. Questo percorso si è interrotto con l’arrivo dei condoni. Con l’approvazione delle sanatorie più disparate, dallo scudo fiscale al devastante concordato biennale preventivo, un regalo fatto ad alcune categorie. Lo Stato è stato ridicolizzato. C’erano decine di migliaia di persone che, carte alla mano, avevano redditi superiori e che hanno beneficiato di una riduzione fiscale del tutto ingiustificata. Penso anche alla c.d rottamazione dei ruoli, un’operazione selvaggia, una vera e propria svendita di crediti dello Stato. Una devastazione della cosa pubblica. In questo contesto l’Amministrazione è stata delegittimata, ha perso la propria mission. E’ diventata uno strumento svuotato di ruolo e utilizzato solo per indurre i contribuenti a fare i condoni. Il rapporto con i contribuenti è riprecipitato in una logica di sfiducia e di negatività.
C’è stato anche un calo della tensione morale?
La soluzione del problema morale non è facile in un Paese come il nostro che ha un tasso di devianza dalla legge piuttosto alto. Ci sono però oggi alcuni segnali che sono tutt’altro che rassicuranti. Ci sono notizie del coinvolgimento di dirigenti dell’Amministrazione fiscale in vicende penali. Non fanno ben sperare perché si tratta di ruoli elevati e non di livelli esecutivi. C’è il timore che il clima complessivo che si respira nel Paese, fatto di arrangiamenti e di furbizie dove ciascuno cerca di trovare benefici e vantaggi personali, possa aver contribuito ad allentare la tensione che aveva cominciato a dare i suoi frutti negli anni precedenti.
La legge finanziaria parla di evasione fiscale e indica in 3 miliardi il recupero di gettito, di cui 300 milioni per il 2006. E’ un’operazione possibile?
Sono perplesso. Ci sono esigenze di pura cosmetica contabile che indicano obiettivi più che altro virtuali. Il problema vero è che il contrasto all’evasione fiscale non si fa in breve tempo. E’ un impegno di medio-lungo periodo e quindi non è pensabile che in pochi mesi certe misure possano trarre frutti in termini finanziari. Soprattutto se a questo non si accompagna un mutamento di clima. Il nostro sistema si basa sull’adempimento spontaneo, è il contribuente il «dominus» del rapporto tributario. Il controllo è selettivo e limitato e ha essenzialmente una funzione di deterrenza. Questo vuol dire che l’impegno antievasione non può essere episodico, tanto meno dopo 4 anni di condoni. E tanto meno se proprio in questi giorni autorevoli esponenti parlamentari parlano ancora di condoni.
Quale è il suo parere sulla riforma della riscossione?
La riscossione affidata al sistema bancario non funziona. Ciò è comprensibile, proprio perché i concessionari di derivazione bancaria non possono avere una vocazione per la riscossione coattiva. Non sono capaci di riscuotere ciò che non viene pagato. Però dobbiamo anche riconoscere che il sistema, così come ha funzionato nella sua storia, non aiutava i concessionari nel loro lavoro perché in molti casi i ruoli che venivano loro trasmessi erano, mi sia concesso un termine forte, spazzatura. E cioè posizioni patologiche (imprese fallite, nullatenenti destinatari di accertamenti milionari, ecc). La creazione di una struttura pubblica ad hoc può essere un fatto positivo, anche per la difficoltà di trovare un soggetto privato capace di svolgere questa funzione con successo. La mia perplessità è legata al timore che questa società possa diventare un altro carrozzone gestito con logiche clientelari senza neppure l’obbligo dei vincoli di finanza pubblica. Diciamo che la storia delle partecipazioni pubbliche è piena di mala amministrazione. La preoccupazione c’è. Mi auguro che l’impostazione sia rigorosa e snella e che non si pensi a costituire strutture pletoriche. Che si miri al risultato. Quello che però manca del tutto nel quadro legislativo che si va delineando è il potenziamento degli strumenti procedurali. C’è la norma sulle ganasce fiscali ma se escludiamo questo, di strumenti veramente incisivi non c’è nulla. Mancano inoltre interventi in grado di incidere efficacemente sugli istituti procedurali. Non è pensabile che i crediti pubblici siano quelli meno tutelati. Il quadro normativo è debole. Se il contribuente preordina il proprio comportamento per evadere le tasse, è necessario che ci siano norme più rigorose. Se non vengono messi in campo strumenti forti, temo che anche la società Riscossione spa possa produrre effetti limitati. Si rischia di avere buoni risultati sulla piccola evasione da riscossione. Ma la grande evasione rimarrà intatta. Occorre una forte e incisiva azione normativa a tutela dei crediti pubblici.
Tra le vicende più controverse c’è la questione degli immobili di interesse storico e artistico. Quale è il suo punto di vista?
La vicenda degli immobili di interesse storico e artistico è devastante dal punto di vista degli interessi dell’erario. Una giurisprudenza discutibile ha portato alla sostanziale detassazione dei proventi di immobili di interesse storico. Questo significa che ville, castelli e appartamenti situati in zone lussuose, affittati a canoni elevatissimi, solo perché vincolati, vengono tassati sulla base di rendite catastali risibili, addirittura inferiori a quelle formalmente attribuite all’immobile. Tutto questo non ha razionalità né giustificazione.Si tratta di un regalo. Ha la stessa logica dell’esenzione Ici sui beni ecclesistici. E’ l’emergere di una politica di interessi di bottega. Senza alcuna coerenza di sistema, senza un disegno. Si aggiungono solo privilegi a quelli esistenti.
Tra i casi più eclatanti dell’allentamento del sistema fiscale c’è quello del calcio
Si tratta di una vicenda incredibile e gravissima non solo dal punto di vista etico ma anche di quello degli interessi dello Stato. Alcune società di calcio non hanno pagato le ritenute dei calciatori in maniera deliberata. Tutta la loro attività economica in questi anni è stata incentrata sul presupposto che non si sarebbe versata l’Irpef. Questa vicenda in un sistema serio avrebbe portato a conseguenze legali a carico degli amministratori delle società di calcio. In Italia, invece, si è cavalcato il sentimento popolare. Si è predisposta una norma impropria e infelice per salvare chi si era comportato male. La transazione sui debiti tributari è una cosa scandalosa: pagare un debito tributario diluito nell’arco di più di 20 anni non ha alcun senso.
Quali sono le priorità per sistemare la macchina fiscale italiana?
Io credo che si debba smetterla con gli interventi estemporanei. Serve un disegno complessivo. Bisogna capire che la credibilità di un sistema fiscale non si basa su ricette miracolistiche ma si fonda su una buona amministrazione, su controlli efficaci e sistematici, su un rapporto corretto col contribuente, sull’ordine. E questo non si conquista in un giorno ma in anni di lavoro. Occorre rivitalizzare un patto coi cittadini-contribuenti e far capire loro che la riduzione di base imponibile è possibile solo in un sistema capace di far pagare tutti. Non è possibile prospettare una riduzione fiscale miracolistica con una situazione di finanza pubblica come quella che abbiamo. Le imposte in Italia sono al livello in cui sono non perché i governanti sono sadici. Sono così perché la spesa pubblica è stata per decenni al di sopra delle compatibilità. Solo attraverso un patto al quale tutti concorrano in maniera coerente, si potranno ridurre le tasse. E’ un percorso che era stato iniziato qualche anno fa ma che è stato infelicemente abbandonato.