Secondo Marco Vitale, che collaborò a suo tempo con il progetto da cui doveva nascere Tim, la vicenda Telecom si riduce alla solita storia di capitalisti all’italiana che vogliono fare i capitalisti senza capitale e soprattutto senza manager. Telecom non ha in sé stessa problemi strutturali seri. In un capitalismo normale si andrebbe al mercato con un aumento di capitale di 10-15 miliardi di euro e il Gruppo rientrerebbe totalmente nella piena normalità finanziaria. Naturalmente gli attuali azionisti di riferimento dovrebbero fare un passo indietro se non vogliono o non possono sottoscrivere l’aumento di capitale per la loro quota. I problemi esistenti a livello di azionisti di riferimento, che hanno sia un valore di carico che un debito elevati, devono essere affrontati e risolti al loro livello, cedendo in tutto o in parte la loro partecipazione e affiancandosi nuovi soci finanziariamente e managerialmente più dotati. Ma è estraneo a qualunque principio di corretto capitalismo – sostiene Vitale – usare Telecom per risolvere i problemi della catena di controllo. Il rafforzamento della base azionaria appare necessario anche alla luce del fatto che l’attuale guida imprenditoriale ha dimostrato di essere priva di una stabile e accettabile strategia e di un manager all’altezza della situazione.
Intervista di Giancarlo Fornari
Professor Vitale, Lei a suo tempo ha seguito da vicino, anche professionalmente, i problemi della telefonia italiana, quindi è la persona più indicata per aiutarci a capire cosa sta accadendo in Telecom. Sembra chiaro che tutto sia nato dai progetti di riorganizzazione che sono stati comunicati dal gruppo. Cosa significano, in pratica, questi progetti?
L’annuncio che è stato dato da Telecom in sé è legittimo: ci si propone di suddividere la società in tre pezzi, uno che si occupa della telefonia mobile, un secondo che gestisce la rete telefonica, un terzo che controlla la telefonia fissa. Quest'ultima da far evolvere verso un’offerta più ampia di servizi. In sé e per sé si tratta di un processo di riorganizzazione interna del tutto normale e legittimo.
Pare che le intenzioni siano quelle di sviluppare la rete fissa facendo leva sulla cosiddetta convergenza dei media: telefonia, televisione, Internet, un processo che sembrerebbe destinato a un notevole successo. Ma allora a che cosa si deve tanta agitazione?
C'è innanzitutto il timore che la riorganizzazione rappresenti solo un passo che prelude a sviluppi ulteriori, e precisamente alla cessione della telefonia mobile – il pezzo pregiato – e magari anche alla cessione della rete secondo il suggerimento contenuto in un promemoria predisposto da un improvvido consulente del presidente Prodi, opportunamente dimessosi nei giorni scorsi. Questi sviluppi vengono considerati un impoverimento del sistema paese anche perché l’elevato valore stimato per la telefonia mobile (dai 30 ai 35 miliardi di euro) fa sì che i potenziali acquirenti siano prevalentemente grandi multinazionali. Questo timore è particolarmente forte nel governo e nei sindacati e non è infondato.
Ci sono altri motivi di preoccupazione?
Un secondo motivo sta nel fatto che la riorganizzazione è esattamente contraria a quella realizzata poco tempo fa fondendo insieme TIM e Telecom, che erano aziende separate. I maggiori aeroporti sono ancora tappezzati da cartelloni pubblicitari che enfatizzano i vantaggi per il cliente derivanti dall’unione di TIM e Telecom. Questo brusco mutamento di rotta deve avere qualche profonda ragione, si pensa. E molti l’hanno preso come un segnale di pericolo. Tutto ciò è peggiorato dal fatto che l’annuncio non è stato accompagnato da alcuna indicazione sulle intenzioni finali. Questa lacunosa informazione, del tutto inaccettabile in un mercato finanziario evoluto, ha lasciato campo libero a tutte le illazioni, a tutte le paure, a tutti i fantasmi.
Ma perché il Gruppo Telecom dovrebbe vendere la telefonia mobile che è la gallina dalle uova d'oro, come purtroppo ben sappiamo giudicando dai costi dei nostri cellulari? C'è una crisi aziendale tanto grave da obbligare a vendere i gioielli di famiglia?
La risposta a questa domanda è negativa. Il Gruppo Telecom non è in crisi ma ha dei problemi, o meglio i problemi li hanno i suoi azionisti organizzati nella catena di controllo. Per capirli bisogna fare un passo indietro e ripartire dalla vecchia Stet, un'azienda delle partecipazioni statali un po’ sonnolenta ma tecnologicamente molto solida. TIM, la telefonia mobile, nasce all’interno di Stet e intorno al 1992, grazie a un progetto sviluppato dall’ingegner Gamberale.
Se non sbaglio Lei partecipò intensamente a questo progetto.
E' vero, vi partecipai ed ebbi modo di accorgermi, in quella circostanza, che i tecnici ed i manager che lavoravano al progetto erano di primo piano. Quasi da subito nacque l’idea di scorporare TIM in una società distinta per darle evidenza sia all’interno del gruppo che all’esterno, aiutandola così ad esprimere al meglio la formidabile carica innovativa espressa dalla nuova attività. Elaborammo le proiezioni economiche, che addirittura ci sembravano sin troppo positive. Ma quando fu creata e fu quotata il successo di TIM fu travolgente e bruciò letteralmente le più ottimistiche previsioni. Nel frattempo, sotto la spinta della graduale apertura dei mercati alla concorrenza internazionale, anche la Stet trasformata in Telecom diventava più dinamica e più attenta ai bisogni dei clienti.
Arriviamo così alla seconda metà degli anni Novanta. Il centrosinistra è al governo e decide la privatizzazione del Gruppo. Fu una decisione sbagliata?
La privatizzazione era un provvedimento corretto ed in sintonia con i tempi ma fu, dal governo di centro sinistra, impostata e gestita in modo pessimo, come del resto la quasi contemporanea privatizzazione di Autostrade.
Su cosa si basa questo giudizio?
Essenzialmente sul fatto che la base azionaria di riferimento alla quale fu affidato il Gruppo era molto debole e soprattutto formata da quei tipici capitalisti all’italiana che amano controllare grandi gruppi senza investire un adeguato capitale. Ciò aprì la porta a spericolate avventure finanziarie. Una prima volta un gruppo di investitori e avventurieri finanziari, sorretti da una rete di banche nazionali ed internazionali e facenti capo ad una persona indubbiamente dotata di capacità imprenditoriali (Colaninno) acquisì il controllo del Gruppo con un po’ di capitale ma soprattutto con un grande indebitamento. L’indebitamento fu poi in parte scaricato con vari metodi su Telecom ed in parte rimase congelato nelle società controllanti. Quando, nel 2001, la situazione iniziò a scricchiolare e gli avventurieri finanziari cominciarono ad avere paura e a litigare fra loro intervenne, benvenuto, un "cavallo bianco", Tronchetti Provera che, quale dominus del Gruppo Pirelli, acquisì il 23% di Telecom all’elevato prezzo di 4 euro per azione, anche lui in gran parte a debito. Si fece dunque quella che gli esperti conoscono come la più pericolosa delle operazioni: un "leverage" sul "leverage" cioè un acquisto a debito su un precedente acquisto a debito. Successivamente, per rastrellare il flottante di TIM e poterla fondere in Telecom senza diluire la partecipazione dei soci, Telecom sborsò 14 miliardi di euro per il 40% di TIM aumentando dello stesso ammontare il proprio indebitamento.
Quindi ci sono due successivi acquisti a debito: Tronchetti compra a debito una società già comprata a debito da Colaninno e soci. Se non sbaglio, comprare a debito, il cosiddetto leverage buy out, significa acquistare una società grazie a soldi ottenuti in parte indebitandosi, in parte indebitando la società stessa che si acquista. E' un castello di carte. In questo caso i castelli di carte sono due uno sopra l'altro se non addirittura tre, basta un soffio per farli cadere. E oggi com'è la situazione?
Il risultato di tutte queste disinvolte operazioni finanziarie è oggi schematicamente il seguente:
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Telecom ha un elevato indebitamento, il più elevato rispetto a tutte le altre Telecom europee. Secondo i dati ufficiali al 30 giugno sarebbe di 41.3 miliardi di euro. Secondo l’agenzia di rating Standard & Poor’s sarebbe di 48 miliardi di euro. Anche prendendo questa configurazione probabilmente più affidabile si tratta di un indebitamento elevato ma ancora, tecnicamente, sostenibile in relazione al flusso finanziario generato dal Gruppo.
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Al di sopra di Telecom i soci di riferimento sono organizzati in una catena di società che hanno due caratteristiche: hanno in carico le azioni di Telecom ad un valore molto elevato (i 4 euro dell’acquisizione del 2001) e dunque hanno in pancia delle rilevanti perdite implicite; hanno un carico di debiti importante (circa 3 miliardi nella società di primo livello, circa 2 in quella di secondo livello, a fronte dei quali hanno probabilmente in pegno alle banche almeno parte del pacchetto azionario). Sono debiti che non possono in alcun modo fronteggiare con i dividendi o altre operazioni ordinarie ed è soprattutto in funzione di questi che si pensano e si temono operazioni spericolate (cessioni di partecipazioni che farebbero tanta cassa ma impoverirebbero il gruppo e dividendi straordinari).
Quindi Lei non ritiene che la società abbia problemi che giustifichino misure come quelle ipotizzate?
A mio avviso Telecom non ha in sé stessa problemi strutturali seri. In un capitalismo normale si andrebbe al mercato con un aumento di capitale di 10-15 miliardi di euro ed il Gruppo rientrerebbe totalmente nella piena normalità finanziaria. Naturalmente gli attuali azionisti di riferimento se non vogliono o non possono sottoscrivere l’aumento di capitale per la loro quota vedrebbero diminuire la loro partecipazione. I problemi esistono piuttosto a livello di azionisti di riferimento che hanno sia un valore di carico che un debito elevati. Questi problemi devono essere da loro affrontati e risolti al loro livello, cedendo in tutto o in parte la loro partecipazione, affiancandosi nuovi soci finanziariamente e managerialmente più dotati o altrimenti. E’ estraneo a qualunque principio di corretto capitalismo usare Telecom per risolvere i problemi della catena di controllo. Il rafforzamento della base azionaria appare anche necessario alla luce del fatto che l’attuale guida imprenditoriale ha dimostrato di essere priva di una stabile e accettabile strategia e di un manager all’altezza della situazione.
In ultima analisi, quindi, un problema di capitali e di capitalisti.
Ridotta all’osso, la storia si riduce alla solita vicenda di capitalisti all’italiana che vogliono fare i capitalisti senza capitale e soprattutto senza manager. Per questo l’unica cosa seria su questa vicenda l’ha, per ora, fatta il comico genovese Grillo che, attraverso il suo blog, ha cominciato a raccogliere deleghe per l’assemblea Telecom per andare a quel tavolo a parlare di capitalismo serio e a porre la domanda centrale: ma di chi è Telecom? Domanda da rivolgere a vari interlocutori compreso il sistema bancario. E’ naturale che progetti che incidono profondamente sul Gruppo Telecom Italia interessino l’opinione pubblica, il governo, i sindacati. Si tratta di una delle poche grandi imprese rimaste al nostro paese e operante in un settore tecnologicamente avanzato, anche se schiacciata in una dimensione puramente nazionale. Una delle poche imprese sopravvissute al massacro della nostra grande industria realizzato da un mix micidiale di politici dilettanti e della peggior classe imprenditoriale della storia italiana, massacro compiuto a partire all’incirca dagli anni novanta. "Capitani di sventura", li chiamò Marco Borsa in un profetico bellissimo libro del 1992 la cui diffusione fu dagli stessi ostacolata. Naturale che le sue vicende interessino così tanto. Ma bisogna evitare che l'interessamento diventi emotivo e confuso come è, fino ad ora, in gran parte avvenuto.