Domenico, e c’è anche una spiegazione: siamo figli di 7 fratelli, 18 cugini. Chiamandosi il nonno Domenico, tutti i primogeniti dovevano prenderne il nome; io sono il più anziano quindi Domenico, poi c’è un Mimmo, c’è un Mimì, una Nica e via così. Quindi io sono un Domenico “integrale”.
Riconosco la faccenda, vale anche per la mia famiglia col nome Luigi. Ma la mia domanda era anche come chiedere: il cognome ti tradisce, ma esattamente di dove sei? E quanto porti delle tue origini nella tua identità?
In realtà mia madre mi ha fatto nascere a Roma, ma ho vissuto qui per i miei primi 18 anni. Villa, Cannitello, Pezzo, Costa Viola: qui attorno…
E a 18 anni, Roma. Università. All’inizio, come tanti, ogni settimana o due eri a casa?
No, la mia è stata una scelta da subito, diciamo così, radicale. Per lo studio, un po’ perché avevo voglia di sbrigarmi, un po’ perché non solo frequentavo l’università ma stavo anche in ospedale dove ho cominciato a lavorare da subito prima in un reparto di Chirurgia Generale, poi dal terzo anno nel reparto di chirurgia maxillo-facciale, quindi praticamente dall’86 al 96 non ho fatto vacanze. Si limitavano, le mie venute qui, a cinque/sei giorni d’estate altrettanti a Natale e basta. E’ stato così per un lungo periodo.
E dopo?
Devi solo pensare che la prima casa che ho comprato in vita mia è stato a Scilla. Ancora oggi dopo 30 anni a Roma vivo in affitto. La casa di proprietà ce l’ho quaggiù.
Quindi come tanti pensi che fra qualche anno, magari in pensione….?
No, non è un fatto di pensione; non è necessario attendere così tanto, fino al momento in cui uno andrà in pensione. E’ un fatto proprio di collegamento mentale. E’ come un filo che elasticamente ci permette di allontanarci per poi arrivare alla massima estensione e riportarci indietro. L’importante è riconoscere che sei legato a un elastico… “rigido”.
Che rapporto hai con questa terra, e come si è evoluto? Ad esempio, psicologicamente, ti senti un traditore o un tradito? In credito o in debito?
Più che altro direi un po’ nostalgico. I luoghi dove sei nato e hai vissuto all’inizio della tua vita sono quelli in cui ti trovi a tuo agio. Forse però l’idea di questo abbandono della tua terra costituisce una sorta di debito, e ritornarci mentalmente in età pensionistica ti dà l’idea un po’ che l’hai abbandonata e ci devi tornare, invece tornarci ciclicamente continuando ad interagire ti dà l’idea che sei pronto per tornare quando qualcosa è pronto per cambiare.
Pensi che un uomo come te partendo da un’altra piattaforma, essendo cioè cresciuto da un’altra parte, avrebbe potuto fare qualcosa di diverso, oppure invece confrontarsi con un ambiente più difficile in fondo in fondo aiuta, che cioè lo svantaggio iniziale possa in alcuni casi trasformarsi in una molla che dia un vantaggio?
In molti casi, è un vantaggio. A meno che partendo uno si scontri con una realtà che trovi così estranea, così difficile da trattare, che torna molto prima; ma in questo caso torna non con l’idea di completare la propria vita ma con una sorta di sconfitta dentro, abbandonato all’inutilità del tentativo di sottrarsi agli eventi…
Bene, ci torniamo dopo, adesso cambiamo argomento. Cominciamo, per i profani, a spiegare cosa significa “chirurgia maxillo-facciale”…
E’ una disciplina relativamente nuova. Parliamo di traumi tumori e malformazioni di testa e collo. E in questa disciplina utilizziamo competenze sia dell’odontoiatria che della chirurgia plastica che dell’otorinolaringoiatria. Quindi è una disciplina che accorpa competenze di varie specialità; poi anche al suo interno ci sono specializzazioni, ad esempio del labbro o dell’orecchio.
Quindi quando ti sei diciamo così imbattuto in questa specializzazione era praticamente appena nata…
Erano diciamo i primi 15 anni che esisteva al mondo. La società italiana di chirurgia maxillo-facciale nasce nell’84. Nel mondo era nata pochi anni prima.
Che rapporto ha con la chirurgia plastica?
Siamo parenti per parte di estetica. Ne usiamo le competenze, ne abbiamo in parte anche rubato le tecniche. Ma loro sono partiti dalla chirurgia malformativa per fatto naturale, per spostarsi specialmente negli ultimi venti anni verso la chirurgia puramente estetica, lasciando a noi le malformazioni per una questione di competenza: innanzitutto perché noi trattiamo non solo la parte estetica ma anche quella funzionale – parlare masticare eccetera. Quindi per noi c’è stato un completamento in chiave estetica della nostra competenza, per loro un abbandono di campo per potersi dedicare al meglio ai loro input.
Per andare al titolo di questo incontro, l’aspetto etico, il risvolto umanitario, viene in mente da subito, quando entri in contatto con questa disciplina?
In realtà io all’inizio lavorando in ospedale ho fatto il training completo per quanto riguarda la traumatologia. Poi chiaramente mi sono un po’ più orientato verso le malformazioni, e necessariamente allora ho avuto a che fare con bambini. E quindi lavorando sempre di più coi bambini cominci ad avere la percezione di un mondo dove più le popolazioni sono povere più il bambino è sfortunato, perchè le malformazioni incidono maggiormente laddove ci sono problemi di igiene o di alimentazione, quindi in Africa, Asia, America Latina.
E a questo punto della tua vita incontri Operation Smile….
Si, sono incappato in questa organizzazione che si occupa soprattutto di bambini con malformazioni, in particolare il labbro leporino. Un collega venne a chiedere a reparto se qualcuno di noi volesse collaborare, era mi pare il ‘99, io avevo molto da fare per via del concorso a primario, ma mi sono impegnato a farlo non appena avessi avuto il tempo, e così l’anno dopo…
Dunque ti ci sei avvicinato nel 2000. Proprio l’anno che nasceva Operation Smile Italia, una costola di quella americana, giusto?
Si, Operation Smile è attiva dal 1982 in 51 paesi al mondo, in Italia dal 2000, ha quindi ormai 27 anni di storia…
…130mila bambini operati… Possiamo dire che esisteva uno spazio tra l’emergenza sanitaria, di cui altre organizzazioni si occupano, e la medicina per chi se la può permettere, ed è qui che si è inserita Operation Smile?
Diciamo che nell’emergenza sanitaria c’è una parte che è ovvia e scontata. Cioè, è ovvio che c’è un’emergenza sanitaria di cui il mondo si deve far carico subito, quella che salva la vita, che salva intere popolazioni, e dà indicazioni di indirizzo per consentire a più persone la possibilità di accesso alle cure. La maggior parte delle organizzazioni si occupano proprio di questo, direttamente o indirettamente. Direttamente con le persone, e indirettamente mandando aiuti in forma sostanziale per rendere questi sistemi sanitari qualcosa di credibile. Pensiamo al Ghana, ad esempio: 95% del budget della sanità della Repubblica del Ghana è destinato alle cure per la malaria. Tutto il resto devono farlo col restante 5%: è ovvio che lì c’è un’emergenza. Cioè, è chiaro che lì il problema più grande è la malaria, ma pensate che tutto il resto, dalle malattie cardiovascolari ai traumi, deve essere fatto col restante 5%. Figurarsi cosa resta per problemi come quelli che trattiamo noi. La situazione delle malformazioni nei paesi del Sudamerica, dell’Africa subsahariana, del sud dell’Asia, è che riguardano più o meno un bambino su 400 nati. Questi sono bambini che chiaramente non parlano, non si relazionano con gli altri, mangiano male, respirano male, hanno difficoltà sociali, però crescono. Qual è il problema? Che in molte di queste culture li mandano via dal villaggio, magari con tutta la famiglia. Quindi sono costretti a vivere, già in un contesto di emarginazione, una vita di ulteriore deprivazione, una vita che con la vita vera non ha più nulla a che vedere. Magari col senso di colpa di chi si sente colpito dal demonio o da una maledizione: una vita che in pratica è una morte “ a rate”. Una morte sociale che arriva prima di quella fisica. E’ di questo che associazioni come la nostra si fanno carico. Ma non nel senso che mandiamo soldi o altro, noi interveniamo direttamente, e investendo il 50% dei fondi, e talvolta anche il 60 o il 70 per cento, non tanto nell’azione immediata, quanto nella formazione di personale di qualità.
Insomma andate lì, pescate per loro, ma poi anche insegnate loro a pescare…
Non solo. Dobbiamo pescare, insegnare a pescare, e insegnare a vendere il pesce, anzi a dare il pesce gratis. Perché se no, se noi diamo gratis competenza a un chirurgo, e questo chirurgo ha la sua clinica privata e percepisce cifre intorno ai 10-15mila euro per ogni intervento, capisci bene… E capita! Pensa che in Cina, alla faccia del comunismo, questo tipo di sanità si paga. E si paga una cifra che un lavoratore medio la guadagna in tre vite. E l’incidenza di queste malattie in Cina è pari a quella del resto dell’Asia, ma i bambini che sono tagliati fuori da questo tipo di cure sono in percentuale dieci volte maggiore che ad esempio in India, dove anche per motivi religiosi c’è una cultura dell’assistenza: se uno sta meglio, prende all’interno del proprio nucleo familiare uno che sta peggio, e se ne preoccupa; magari in cambio di qualche lavoretto per la famiglia, ma se ne fanno carico. In Cina questo non esiste.
Voi agite per “missioni”, delle vere e proprie spedizioni durante le quali salvate il futuro a tantissimi bambini, ci vuoi spiegare di che si tratta? A quante hai partecipato tu? Dove e quando è stata l’ultima? E la prossima?
Ne ho fatte 31 fino all’ultima ad aprile che sono stato in Giordania, e andrò in India a dicembre prossimo. La missione in realtà è uno dei momenti della nostra attività, come ti dicevo: in una missione noi siamo in grado al massimo dell’efficienza, con 6 sale operatorie, in 5 giorni, con chirurghi veloci, siamo in grado di operare 250 bambini. Nulla. In un Paese come l’India è nulla. Una volta ho fatto uno screening in Cina: in due giorni, su 536 bambini che ho visto, papabili per avere l’intervento, non solo siamo riusciti ad operarne subito circa 130, e ho avuto la pena di doverne rimandare indietro altrettanti per una missione che avremmo avuto di lì a due mesi, ma nel frattempo continuavano ad arrivare altre persone che chiedevano di essere operate, per cui eravamo costretti a dire no. Perciò una missione è anche un momento di incontro per la formazione del personale che deve restare ad operare in loco: se non abbiamo questa opportunità la missione è una vera perdita.
Quindi per voi un buon feedback è avere delle strutture lasciate dietro le spalle…
In questo momento abbiamo 8 centri di eccellenza che lavorano in maniera autonoma. L’ultimo l’abbiamo realizzato in Cina e in due anni è arrivato a fare 1500 operazioni l’anno. Tutto ciò equivale a 40 missioni, 50 missioni l’anno. Solo investendo in queste strutture possiamo risolvere qualcosa, e dando loro la responsabilità dello risolvere i problemi.
Il vostro sito (www.operationsmile.it) è veramente ben fatto: si spiega molto bene come si può sostenervi, in un ampio ventaglio di possibilità dall’intervento attivo se si è medici alla semplice donazione dei pochi soldi necessari all’acquisto di un kit di sutura, passando per il finanziamento del viaggio di un medico per una missione o dell’intervento sul labbro o sul palato di un bambino. Il sito inoltre ricorda come versare a voi il 5 per mille e dedurre fiscalmente altre eventuali donazioni, e permette l’effettuazione di donazioni on-line. C’è però una sezione particolarmente toccante: è la galleria fotografica dei bambini prima e dopo gli interventi. L’emozione che si prova a vedere le foto immagino sia una frazione di quella che si prova, anche se ti capita da anni, quando sei a contatto con loro. Cosa succede?
Guarda, mentre in una struttura ospedaliera trovi una organizzazione per cui dopo un po’ tutto diventa routine, magari salvo l’emozione per certi interventi, qui questo è letteralmente impossibile, perchè tu hai un ruolo nell’ambito dell’organizzazione che non è che stai in sala operatoria senza contatto diretto con l’ambiente, ma hai una sorta di necessario bagno d’umanità che non permette che tutto ti scivoli dalla pelle. In certi Paesi, i contatti, le situazioni, le culture, i bambini, i genitori, la maniera di affrontare la malattia, l’accettazione, il rifiuto, l’idea di essere stati colpiti dal demonio piuttosto che in qualche maniera vittime di un sortilegio: cambia completamente l’impatto sociale. E dietro ogni storia c’è un mondo, una realtà che neanche riusciamo ad immaginare. Per esempio, il nostro Presidente Santo Versace, che è venuto in missione poche volte, ha avuto la possibilità di incontrare situazioni paradossali, una su tutte quella di una famiglia cui noi abbiamo dovuto dire di no più volte, perché una volta il bambino aveva la polmonite, la volta dopo la malaria, e non avendo la possibilità di effettuare l’intervento in totale sicurezza li si manda via, e questi magari si sono fatti un viaggio mica come per noi andare da qui a Roma, perché per loro fare 500 chilometri significa magari attraversare un deserto a dorso di un cammello poi prendere una corriera, insomma 10/15 giorni spesso non avendo soldi. Insomma questa famiglia era già la terza volta che veniva, eravamo in Etiopia, e aveva già venduto tre mucche per le spese, e anche quella volta il bimbo aveva una febbricola che non passava già da due giorni. Siamo riusciti a operarlo l’ultimo giorno, ma intanto avevamo fatto una colletta tale che questi sono tornati al villaggio con una mandria di mucche. Queste sono situazioni nelle quali, una volta che tu ne sei informato, come fai a esimerti dall’intervenire in qualche maniera? Poi c’è anche un altro fenomeno che è abbastanza comune: noi ci occupiamo in genere dei bambini più piccoli, di modo che la crescita non sia influenzata dai problemi funzionali e magari da grandi non abbiano nemmeno memoria di aver vissuto con una malformazione. Però talvolta arrivano bambini che hanno superato i 7, 8, 10 anni, o ragazzi di 18, 20, 25 che hanno una storia, un vissuto di emarginazione che non ti raccontano i loro genitori, ti raccontano loro, e loro sanno che hanno questa, di opportunità, e se salta magari devono aspettare un altro anno, ma un altro anno per loro non è come per un bimbo di sei mesi, è un altro anno che non passa mai, un altro anno di carcere. E allora è difficile ogni rifiuto, anche se motivato.
Hai convinto tu Santo Versace ad accettare la presidenza di Operation Smile Italia? Se si, quando e come? E comunque, che tipo è? Che tipo di apporto da alla vostra organizzazione?
Si l’ho convinto io. Quando gli chiesi di accettare la candidatura mi fece una domanda. Mi chiese “siamo sicuri che dietro a questa organizzazione non ci sia un giro di denaro strano, e poi mi trovo sulle prime pagine dei giornali per un problema molto più tosto di quello che mi riesce di immaginare?”, e io gli risposi “siamo sicuri che noi non finiremo sulle pagine dei giornali perché ci siamo scelti come presidente un imprenditore che è anche un politico e poi improvvisamente si scopre invischiato in altre cose che noi nemmeno riusciamo ad immaginare oggi?” Ci siamo dati la mano e ci siamo salutati. D’altronde era l’unica, fidarsi l’uno dell’altro. Quando si ha a che fare con delle organizzazioni la diffidenza è opportuna. Io stesso ho avuto a che fare con altre organizzazioni: ho scelto questa anche perché mi dava la possibilità di avere un accesso diretto, di persona, ai conti. Noi non siamo un ente governativo e non abbiamo diritto a fondi che vengono dal Ministero degli Affari Esteri, i finanziamenti nostri vengono utilizzati tutti nelle missioni e non c’è un’intermediazione, non ci sono acquisti di materiali o beni conto terzi, non c’è nessuna movimentazione di capitale, e la nostra amministrazione è certificata dalla Pricewharehouse quindi abbiamo un bilancio che è strasupercontrollato. Questa è l’unica maniera corretta per coinvolgere persone a titolo totalmente gratuito, e diversamente io stesso avrei avuto difficoltà a dare credito scientifico all’organizzazione.
In missione vi portate solo specialisti, o c’è posto per altri profili?
Ci sono altri profili professionali, però è tutto finalizzato alla missione. Nessuno di noi si porta la famiglia: se la missione dura una settimana ciascuno nel corso di quella settimana svolge il compito che gli è assegnato. Per cui infermieri, pediatri, insomma tutto il personale, dal capo della missione fino all’ultimo addetto ai materiali medicali, ognuno sa esattamente quello che c’è da fare, qual è il suo compito, il proprio ruolo, e non c’è margine all’improvvisazione perché purtroppo, appunto, la missione deve dare la possibilità a ogni bambino che viene trattato di essere operato e poi avviato a dimissione rapida. Inoltre, c’è questa necessità: noi dobbiamo rappresentare un mondo altamente qualificato, scientificamente supertestato, superpreparato, di modo che il nostro aiuto resti a modello dei medici e del personale locale dopo la fine della missione che dura magari una settimana. Un conto è che io abbia un manipolo di medici, con tanto di curriculum, un altro è che io abbia chi sa insegnare a chi sia in grado di apprendere le tecniche ed i protocolli che noi utilizziamo.
Ho letto di un protocollo d’intesa con la Regione Lazio per la progettazione e realizzazione di un Centro. A che punto siamo?
Siamo andati oltre. Siamo arrivati a un accordo con il Ministero della Salute, che ha avviato uno studio di fattibilità per tre centri: uno a Milano, uno a Roma, e l’altro… punto interrogativo. Perché è vero che il Nord ha già molti meno problemi del Sud in genere per la sanità, ma la realizzazione di un centro deve essere una cosa fortemente voluta innanzitutto dalle amministrazioni locali. Perché sono tante le esigenze e non si può creare una sorta di cattedrale nel deserto, perché non avrebbe senso. Quindi aspettiamo, il terzo centro l’abbiamo inserito nel progetto, stiamo verificando la realizzabilità, ma prima di annunciare dove sarà aspettiamo di essere sicuri.
In altre parole va bene cercare di pagare il debito con la propria terra, ma la terra deve essere in grado di accogliere il pagamento…
Il nostro centro va inserito all’interno di un contesto ospedaliero, non è una struttura a parte, quindi bisogna che ci siano i necessari supporti di servizio, l’integrazione e la volontà di collaborare. Noi riusciamo abbastanza bene a realizzare una struttura come questa a Milano perché convertiamo una realtà esistente come Smile House, e a Roma pure convertiamo una struttura preesistente reindirizzandone le attività. Qui sarebbe troppo costoso creare una struttura ex-novo. A partire dalle persone…
Nel frattempo però cominci ad essere riconosciuto anche in Calabria per quello che fai altrove: Medaglia d’oro Calabria 2009 dell’Associazione Brutium, premio Anassilaos 2007. Voglio dire: un calabrese che viene celebrato nella sua terra, e per un progetto che non implica la realizzazione di niente di concreto per la propria terra, come sta?
Bene. (risate)
Siamo partiti da qui, abbiamo fatto un giro, e adesso torniamo in Calabria per avviarci alla conclusione, poi lasciamo lo spazio a qualche intervento, se c’è qualcuno che vuole fare qualche domanda…
Tranne i calabresi! E Gianni Calabrese presente in quarta fila (risate)
Allora, ci sono due scuole di pensiero: una che dice che il posto dove nasci è solo un caso, e hai il diritto/dovere di realizzare te stesso secondo i tuoi valori dovunque tu voglia e/o possa nel mondo, e una che dice che chi nasce in un posto è li se ne è capace che deve dare il suo apporto a far si che quel posto diventi il più possibile aderente al proprio sistema di valori ideale, e lì deve fare vedere se vale o non vale. Tu a quale delle due ti senti più vicino?
Prima ci deve essere l’idea che uno vuole realizzare. Poi ci devono essere le condizioni. E’ chiaro che chi tra noi conterranei, se non trova nella sua terra gli strumenti necessari per realizzare quello che vuole, deve andar via. Il discorso è sempre legato alla questione se sia l’idea più importante dell’uomo o viceversa. Altro che alla propria terra: può darsi che il voler realizzare qualcosa comporti anche la rinuncia a se stessi… Per cui se dopo aver sperimentato l’impossibilità si parte… Certo, non è che uno abbia l’idea di andarsene fin da piccolo!
Sai che l’argomento di questa serie di incontri è “nessuno è profeta in patria”. A un ragazzo che volesse essere profeta in patria, cosa consiglieresti?
Quello che respiri culturalmente a casa poi lo porti come modello per la tua realtà: se nei primi dieci anni di vita tu pensi che il modello rappresentativo di reazione a un’onta che subisci sia necessariamente il ricorso alle armi o alla violenza, semplicemente in futuro tu non riesci a staccartene. Io sono sempre dell’idea che per poter cambiare le cose bisogna cambiare prima le persone, bisogna creare le condizioni perché culturalmente le persone abbiano accesso non al “grande fratello” ma a un modello rappresentativo diverso, in alternativa al modello mafioso. Altrimenti restiamo in un sistema dove le cose possono cambiare solo in base a due modelli: uno – che possiamo chiamare “mafioso” – basato su un certo tipo di “pressione” e perlomeno aggiramento della legalità, l’altro in cui – come nel gioco dei pacchi, in cui uno non ha bisogno neanche di studiare – basato sulla fortuna e sulla vacuità. Una notizia che mi colpì molto – parlo di oltre quindici anni fa – fu quando venne fuori che il servizio più utilizzato tra quelli offerti dall’allora Sip era l’oroscopo. Non è neanche una questione di nord e sud: in realtà in certe sacche del nord il livello culturale medio è molto inferiore a quello del meridione. Solo che lì la maniera in cui ci si rapporta agli altri è più civile: quello che noi non abbiamo è il senso del bene comune.
Viene in mente una battuta di Troisi, quando diceva: “ si è sempre meridionali di qualcuno”… Uno come te parte dal Sud Italia si realizza altrove e poi va in soccorso di un altro Sud, e a questo punto un sud vale l’altro…
Il problema è che se tu ti accorgi dell’esistenza di quest’altro Sud non puoi non pensare che sei tu che devi averne cura e responsabilità. A me viene da fare un’altra battuta. Io sono stato per un lungo periodo a un training a Parigi e nel nord della Francia. Parlavo un francese abbastanza comprensibile. Andai a ritirare delle fotocopie, che non erano pronte. Poi mandai un mio amico francese, a cui dissero: è passato prima quel suo amico di Marsiglia. Senza saperlo, parlavo francese con l’accento del sud.