A dire il vero, il grande dibattito sul terrorismo e le sue cause è pieno di problemi mal posti e di slogan, che finiscono per definire due campi contrapposti, ma sostanzialmente speculari: da un lato, quelli che vedono il problema negli elementari termini di un attacco di un nemico malvagio alle libertà dell’occidente, e che chiamano tutti a raccolta nella nuova guerra contro il terrorismo; dall’altro, quelli che vedono qualsiasi manifestazione jihadista, dalle autobomba in Iraq agli attentati in Europa, dai razzi su Israele alle manifestazioni contro le vignette sataniche, come una reazione, più o meno giustiziata e più o meno proporzionata, a qualcosa che l’Occidente avrebbe fatto, il che a sua volta può comprendere il passato coloniale, il presente imperiale, l’esibizione della sessualità, la laicità dello Stato o la persistenza nel mangiare prosciutto.
In ogni caso, questa logica binaria, che viene adottata in modo sostanzialmente omologo un po’ da tutti, siano presi a bandire crociate o a giustificare, quando non a sottoscrivere, ogni azione dei resistenti o insorti che dir si voglia, sembra a sua volta sottendere due presupposti: che l’Occidente sia un monolite al cui centro si trova la tradizione giudaico-cristiana, e che tutto il resto del mondo si definisca unicamente in base ad esso o in reazione alle sue attività.
In realtà, a ben vedere, tutto questo monolitismo non c’è da nessuna parte, e le nostre società e culture sono decisamente più composite.Non solo perché oltre alle radici cristiane ce ne sono altre (la cultura greca, il diritto romano, gli scambi commerciali e culturali con l’Oriente, l’integrazione con il mondo islamico, la struttura sociale dei cosiddetti barbari germanici), ma soprattutto perché queste radici, in fin dei conti, tendono ad essere un po’ sopravvalutate. Al fondo della modernità, fenomeno culturale, sociale, politico ed economico che è stato, questo sì, capace di imporsi come modello al mondo, c’è un progetto di fondo che corrisponde all’idea di mettere tra parentesi ogni trascendenza, per lo meno rispetto alla sfera del discorso pubblico, e di darsi da fare per migliorare le condizioni di vita qui, ora e da ora in poi: in altre parole, la negazione esatta di quel progetto culturale, che cerca di accreditarsi a destra e a sinistra, che vuole riportare continuamente tutto al tema delle radici, della nostra cultura di provenienza.
Da questo punto di vista è più opportuno parlare di modernità che di Occidente: una forma di organizzazione economica e sociale, di rappresentanza politica e di rappresentazione culturale che è certamente nata in Europa e in America settentrionale, e che pone al suo fondamento degli eventi storici chiaramente dirimenti nella storia di questi continenti (le scoperte geografiche, la rivoluzione scientifica, la riforma protestante, e poi le guerre di religione con la conseguente pace di Westfalia, la rivoluzione americana e quella francese, l’industrializzazione, il suffragio universale, le lotte operaie e avanti così), ma che è in grado di farsi udire anche in altre lingue e in altri luoghi, come dimostra egregiamente il caso dell’Asia orientale. È chiaro che si tratta di cosa poco gradita ai preti di ogni tonaca e colore, che hanno visto una drastica riduzione del loro potere in ogni fase di sviluppo di questa modernità, e che oggi riprendono una sorta di iniziativa congiunta, con i preti cristiani che attaccano la teoria dell’evoluzione mentre deprecano l’impoverimento spirituale delle terre occidentali e i preti islamici che, in nome della difesa della loro identità armano i bombaroli suicidi e reprimono le donne; dovrebbe anche essere chiaro che, mentre difendiamo le nostre conquiste da questa offensiva clericale, e anzi cerchiamo di espandere alcuni confini fondamentali del libero vivere civile, come il nuovo stato dei rapporti di coppia e dei nuclei famigliari, non possiamo lasciare il vessillo identitario nelle mani di chi, con questo vessillo, cerca di avvilupparci da capo a piedi.
Fuor di metafora, non è accettabile in nessun modo, e in nessun contesto, l’equazione tra religione e contenuto spirituale, o l’accusa di fomentare il conflitto quando si mette da parte la trascendenza o, peggio ancora, la profezia di sventura di un Occidente indebolito dalla mancanza di referenti, tanto cara a tanta parte della destra mondiale. Se c’è qualcosa che la storia di questa parte di mondo mostra, è che si può benissimo campare senza Dio, che può esservi una morale civile atea, che la conoscenza progredisce bene lo stesso, se non addirittura meglio, e che, se necessario, si possono anche fare rivoluzioni e vincere guerre, solo che si tende a essere un po’ meno pronti a saltare alla gola degli infedeli.
Da questo punto di vista, la modernità, che si porta dietro un bel po’ di colpe e di difetti, ma che per lo meno è capace di elaborare uno spazio concettuale e pratico in cui criticarli, è chiaramente contrapposta a qualsiasi forma di fondamentalismo, cristiano, islamico o Hare Krishna che sia. Ciò non significa, naturalmente, che le religioni non siano compatibili con il discorso della modernità, ma solo che deve essere chiaro che, nella sfera pubblica, che va dalla rappresentanza politica alla ricerca scientifica, dalla cultura condivisa e insegnata nelle scuole ai requisiti di accesso alla cittadinanza e alle prestazioni sociali, la religione deve fare un passo indietro ogni volta che si confronta con altre istanze legittime. Ciò può generare conflitti con visioni del mondo diverse, e può portare a lacerazioni violente: lo sappiamo, e del resto la nostra storia è piena di esempi in questo senso; i conflitti vanno prevenuti e le lacerazioni evitate, ma non a prezzo della riapertura di un “dialogo tra clericalismi” che ci farebbe perdere molto di più di quanto potrebbe farci guadagnare.