Londra, 1950. Mattino presto. In una pasticceria un giovane apprendista sta lavando freneticamente le stoviglie. Come ogni giorno, ha la solita sequenza di cose da fare e questo gli permette, ogni tanto, di estraniarsi e pensare. Probabilmente, sta pensando proprio a quanto sia profondo e metaforico il mondo che si nasconde nelle cucine dei ristoranti e che forse, sarebbe bello raccontarlo, un giorno, in qualche modo. Quel giovane è Arnold Wesker e, anche se ancora non lo sa, quei pensieri da lì a pochi anni si trasformeranno in uno dei suoi testi teatrali più riusciti: “La cucina”. In scena al Teatro Eliseo fino al 20 maggio.
Dopo “soli” sessant’anni, il testo del drammaturgo inglese, è reinterpretato dal talentuoso regista Valerio Binasco che gestisce e orchestra un parterre di ben 24 attori (giovani, meno giovani, e giovanissimi) tutti provenienti dalla Scuola di Recitazione del Teatro di Genova.
Ma procediamo con ordine. Arrivati in teatro, siamo accolti, a sipario aperto, da una scenografia imponente e spettacolare. Le luci dell’alba filtrano dalle ampie vetrate e illuminano l’interno di una cucina di un grande ristorante londinese del dopoguerra, ricostruita nei minimi dettagli: postazioni, strumenti e stoviglie sono tutti in attesa di essere utilizzati.
Il primo atto è dedicato interamente a quello che possiamo definire il “risveglio” della cucina. All’inizio, infatti, in scena c’è solo Alfredo, onnipresente e ormai veterano aiuto cuoco che, aspettando l’arrivo dei suoi colleghi, inizia a sistemare pigramente gli oggetti e le varie postazioni di lavoro. Il graduale arrivo dei componenti della brigata, provenienti da diverse aree geografiche, ciascuno espressione di una diversa etnia, è curioso ed entusiasmante. Ogni personaggio entra in cucina portando con sé i propri retaggi culturali, i propri pensieri e soprattutto i problemi, esternandoli senza filtri in quello che, de facto, non sembra un luogo proprio atto ad accogliere sfoghi personali. E invece non sarà così. Le vite variegate e problematiche degli elementi della brigata si mescolano dentro e fuori dalla cucina, creando una tavolozza di colori amara ma gradevolissima da assaporare.
Il numero elevato di un personale così eterogeneo, unito alla grande mole di lavoro da compiere non può che produrre un clima di costante tensione, ricco di continui litigi e baruffe. Episodi di razzismo, nonnismo, furti e ricatti sono all’ordine del giorno e vengono affrontati con cinismo e rassegnazione da parte di tutta la brigata. Nonostante tutto però, è altrettanto evidente di come sia presente anche un’ inspiegabile leggerezza unita ad un’ombra di speranza. Trovano spazio, infatti, anche gli amori, l’amicizia e soprattutto un inaspettato senso di fratellanza e di appartenenza.
Il primo atto è un vero e proprio crescendo di ritmo e di energia che culmina con il momento frenetico e confusionario del servizio. Lascia a bocca aperta la realistica messinscena di “caos organizzato” che i 24 attori riescono ad ottenere muovendosi all’unisono, come in un meccanismo perfetto, per poi terminare con un escamotage di rallentamento del tempo che non può che strappare un meritatissimo applauso.
Il secondo atto si apre, invece, con un’atmosfera completamente diversa. Il servizio è appena terminato e nell’attesa che arrivi il momento della cena, c’è spazio per il gioco, il riordino, il confronto e il meritato relax. “Queste sono le ore più belle della giornata. Sono anche le più lunghe però. Però sono le più belle. Ma anche le più lunghe, però. Eh sì, più belle ma più lunghe.” Dice Alfredo.
Questa parte dello spettacolo è dedicata all’approfondimento di alcuni personaggi, alle loro speranze e i desideri più nascosti. Particolare la figura di Paul, il pasticcere (probabilmente un riferimento autobiografico), che attraverso un vibrante monologo pone l’accento sulla situazione politica dell’epoca sottolineando la necessità di reagire alla paura, alla lotta di classe e agli incubi della guerra da poco finita, con l’unione e la fratellanza. Al tema politico s’intreccerà poi quello amoroso del tormentato e problematico legame tra Peter, il cuoco addetto al pesce e Monique, la capo cameriera.
Il cast degli attori provenienti dalla Scuola di Recitazione dello Stabile è tutto di altissimo livello: ogni personaggio è costruito con molta cura e portato in scena con dei colori che possono sembrare, in prima analisi, fin troppo caricaturati. Ecco quindi comparire il rigido cuoco tedesco, l’ingegnoso inserviente proveniente dai paesi dell’est, il simpatico aiuto cuoco napoletano e così via. Questa soluzione registica risulta invece vincente ed oltre che aiutare il pubblico a ricordare gli innumerevoli ruoli e personaggi, dona all’opera una gradevole atmosfera, capace di affrontare con ironia e leggerezza i delicati temi della miseria e della lotta di classe. Scorrono, infatti, senza problemi le due ore di spettacolo intervallate da una sola pausa.
Quello di Wesker è un testo che possiamo definire, tutto sommato, un classico in quanto non ha la pretesa di destabilizzare o di sorprendere con particolari innovazioni o ricerche stilistiche. L’intento del drammaturgo è piuttosto individuare un modo semplice, ironico e profondo di raccontare i problemi dell’epoca, identificando nella cucina un vero e proprio microcosmo di emozioni. La sensazione, gradevolissima, è quella di assistere alle vicende di una grande, complessa e conflittuale famiglia, la cui appartenenza, nonostante tutto, non è mai in discussione. Imperdibile.