Ottimisti, in salute, (quasi) felici: questi i settantenni di oggi – o, almeno, una buona parte di loro – quali li fotografa una ricerca del Cnr presentata al Forum sulla Terza Età di Stresa del 25 e 26 novembre. “Nuovi vecchi ragazzi” ancora in forma, pieni di energia e voglia di vivere. Marco Vitale in questo intervento – svolto ad un congresso sul “Futuro degli anziani” organizzato a fine ottobre dalla Cattedra di Gerontologia e Geriatria dell’Università di Milano – illustra da par suo i cambiamenti che si stanno verificando a livello sociale ed umano per effetto dell'aumento progressivo dell'età media e del miglioramento della qualità della vita degli anziani. Cambiamenti di cui molti – dagli economisti alle istituzioni ai sindacati – sembrano non essersi ancora accorti, commettendo l'errore di guardare solo le negatività e non le positività della nuova situazione. La longevità è un bene e non un male: dobbiamo solo imparare a convivere e collaborare meglio tra generazioni. La via maestra per attenuare l’onere dell’invecchiamento consiste nell'aumentare l’età attiva, sviluppando l'apporto economico e sociale degli anziani. Bisogna evitare i terrorismi contabili sulla spesa pensionistica: il costo delle pensioni degli anziani è più che sostenibile – a patto, però, che smettiamo di pensionare i giovani. Anche per la sanità, i cui costi in crescita fanno paura, bisogna cominciare a pensare in termini di investimento e non solo di spesa. Osservazioni su cui i nostri decisori politici, se riuscissero ad astrarsi un attimo dalle emergenze vere o presunte della quotidianità, farebbero bene a meditare.
Intervento di Marco Vitale
Due episodi esemplari: le difficoltà dell'Estonia e la misteriosa fine di Caffè
Nel 1993 mi recai a Tallinn, capitale dell’Estonia, città porto sul mar Baltico, un tempo fiorente città di mare e incrocio di importanti correnti commerciali. Era passato poco tempo dalla rivoluzione incruenta (la chiamavano la rivoluzione dei canti, perché era iniziata proprio con un incontro di popolo che incominciò a cantare antiche canzoni popolari e nazionali) che aveva liberato il paese dal durissimo giogo coloniale dell’U.R.S.S.
La città, attraverso i suoi antichi e maestosi palazzi, mostrava l’importanza della sua storia e la sua dignità. Ma attraverso il deplorevole stato di quei palazzi, la mancanza di manutenzione in tutta la città ed ancora le ferite dell’ultima guerra che l’aveva colpita molto duramente, mostrava la sua presente povertà e debolezza. Noi visitammo la città guidati da una vigorosa professoressa d’inglese quarantenne.
Una delle cose che mi colpirono fu che a molti angoli c’erano delle signore molto anziane, poveramente vestite ma pulite, ordinate e dignitose, che cercavano di vendere qualche cosa: vecchie cartoline, vecchi merletti, tazzine di porcellana; una suonava il violino. La nostra guida – professoressa d’inglese – si accorse che guardavo con curiosità e simpatia queste vecchie signore e fece il seguente commento: “Sono vedove pensionate che vivono sole e la pensione non è sufficiente per vivere, anche se quasi tutte hanno un orto di guerra (favorire il possesso di questi orti è l’unica cosa buona che il regime sovietico ha fatto); perciò cercano di integrare in qualche modo la loro pensione. La pensione è per ciascuna di loro insufficiente ma in totale queste pensioni pesano su di noi moltissimo. L’unica nostra speranza è che muoiano in fretta”. La guida–professoressa aveva delle idee molto chiare, ancorché un po’ rudi, su come risolvere i problemi economici derivanti dall’invecchiamento della popolazione.
Federico Caffè era uno dei più stimati economisti italiani, uno dei pochi conosciuti e rispettati internazionalmente. Dedito totalmente alla ricerca e all’insegnamento, aveva fatto della sua cattedra romana una fucina di uomini di valore scientifico e umano, come Ezio Tarantelli, assassinato dalle BR nel 1985. Molti che sono oggi portatori di responsabilità economiche rilevanti sono suoi allievi. Caffè pensava ed insegnava l’economia non come aggressività senza freni, ma come sistema razionale in grado di garantire anche i più deboli. Nel 1987 aveva settantatre anni, era ormai professore fuori ruolo e il suo rigore morale e scientifico lo aveva gradualmente emarginato in quell’Italia emergente di “nani e ballerine”.
Il 15 aprile 1987 lasciò sul tavolo documenti e occhiali, uscì di casa all’alba e sparì. Nessuno, nonostante ricerche da parte di amici ed allievi protrattesi per anni, riuscirà a risolvere il mistero di questa sparizione né a raccogliere il minimo plausibile indizio. Chi ha scritto di questa vicenda ha sottolineato che Caffè si sentiva ormai un uomo solo e inutile. Si tratta di una valutazione convincente e documentata, ma io credo che nella sua decisione di sparire in silenzio vi fosse anche il desiderio di “non disturbare”. Lo desumo da un suo scritto di un anno prima, nel quale scrisse sul problema degli anziani e del loro rapporto con la società. In questo documento parlava di una tribù africana che aveva il costume di accompagnare al fiume i vecchi. Ogni anno i più vecchi venivano guidati verso un vorticoso fiume, accompagnati da tutta la tribù con canti e danze. Alla fine venivano spinti nei gorghi con l’aiuto di lunghe pertiche e sparivano nella corrente. Secondo Caffè questo modo di fare era più gentile e umano del nostro, che fa di tutto per allungare la vita e troppo poco fa perché la vita allungata sia qualitativamente degna di essere vissuta, e considera i vecchi solo un peso inutile, persone che danno disturbo. E lui, per non dare disturbo, sparì.
Economia e soggettività
Il primo episodio ci introduce concretamente e con chiarezza nella problematica economica dell’invecchiamento della popolazione, con le sue durezze, la sua realtà, i suoi conflitti, i suoi pregiudizi. Il secondo ci introduce nell’area delicata e complessa, non meno importante, dei problemi emotivi della vecchiaia, con il senso di solitudine e di inutilità che colpisce tante persone anziane, anche del livello intellettuale di Federico Caffè. Su questi due temi svilupperò alcune considerazioni.
La teoria economica è abbastanza semplice, anzi semplicistica. L’invecchiamento della popolazione, in atto in Europa e in Giappone da molto tempo, è considerato dalla stessa uno dei più potenti freni allo sviluppo. La società italiana è la seconda più anziana del mondo. La prima è il Giappone con il 21% di popolazione oltre i 65 anni. La seconda è l’Italia con il 20%. Segue un gruppo di paesi europei tra il 18,8% (Germania) e il 16% (Regno Unito). Questa situazione, che è il risultato di complessi fenomeni in atto da alcuni decenni, porta, secondo la teoria economica, alla conseguenza che una base sempre più piccola di produttivi deve mantenere una quota crescente di improduttivi, e questa è una tendenza indesiderabile e non sostenibile.
Questa conclusione si basa su un assunto che, citando un altro grande economista italiano da poco scomparso (Giorgio Fuà), possiamo esprimere con queste parole: Generalmente parlando, sia la capacità di produrre reddito, che i bisogni di consumo di una persona variano in funzione della sua età. Per schematizzare si può assumere (come è convenzione abbastanza diffusa) che il saldo netto tra produzione e consumo sia negativo per le età da 0 a 14 compiuti (consumano solo), positivo da 15 a 64 (producono più che consumano), nuovamente negativo da 65 in poi (consumano più che producono).
Se la popolazione invecchia le risorse necessarie per mantenere, assistere e curare gli anziani inattivi aumentano. Tali risorse possono provenire: a) dai risparmi che l’anziano ha accumulato nell’attività produttiva, b) dai suoi familiari ancora in attività produttiva, c) dalla collettività produttiva sotto forma di prelievi per finanziare la pensione con il sistema della ripartizione. In un modo o nell’altro tali risorse gravano, dunque, sulle fasce produttive, e ciò è fattore fortemente negativo per lo sviluppo.
Una teoria troppo statica…
Perché ho parlato di un approccio semplicistico della teoria economica? Perché, come accade spesso alla teoria economica, malata di staticità, essa continua a ragionare a bocce ferme, come se nulla mutasse. Ma se i gerontologi ci stanno spiegando da tanto tempo che anche le età, grazie a tanti fattori, si sono spostate in avanti, perché la teoria economica non tiene conto di ciò? Essa non conosce il principio di indeterminazione e continua a ragionare solamente secondo i principi della meccanica tradizionale. Ma è corretto l’assunto che oltre i 65 anni non si sia più produttivi? Credo che si tratti di un assunto ormai inaccettabile. E penso che Prodi, Berlusconi, Rita Levi Montalcini, Sofia Loren, Armani, Ciampi, Adenauer (che incominciò a fare il cancelliere della Germania a 70 anni), Andreotti, Napolitano, tutti “over 65”, siano pienamente d’accordo.
Anche se guardiamo all’attività sportiva troviamo molti anziani che si esibiscono in exploit impegnativi e quasi agonistici. All’ultima Maratona delle Dolomiti, la più bella gara ciclistica del mondo e seriamente impegnativa, hanno partecipato numerosi over 65. All’ultimo “Mapei Day” da Bormio allo Stelvio (21 km con 1500 metri di dislivello) ha partecipato, fra tanti anziani, Camillo Onesti, già presidente del Coni, 80 anni, impiegando poco più di tre ore ed arrivando davanti a molti quarantenni. Ma, al di là di questi exploit, moltissimi sono gli over 65 che, avendo praticato sport attivo e godendo di buona salute, continuano a lungo a praticare attività sportiva. Si dirà: queste sono eccezioni. Ma le eccezioni hanno sempre un valore segnaletico. E quanti sono i sessantacinquenni che, per almeno altri dieci anni, svolgono un’attività produttiva completa e intensa, come sempre o più di sempre?
Quanti sono gli anziani che, avendo cessato il lavoro principale, iniziano una seconda attività utile e produttiva, magari nel sociale? Quanti sono gli anziani che, pur non svolgendo più alcuna attività retribuita, e quindi epurati dalle statistiche, svolgono un’opera preziosa ed anche economicamente rilevante nelle famiglie, nella cura dei nipoti, in mille lavori domestici? Credo che siano tanti e che il fenomeno sia economicamente rilevante, ancorché non misurato e, forse, non misurabile se non con indagini ad hoc, di tipo statistico. La mia impressione è che la presenza dei nonni spesso non sia un peso, ma un aiuto prezioso per la famiglia dei figli e che dobbiamo impegnarci perché sia sempre più anche una gioia reciproca.
…smentita dalle statistiche
Fortunatamente, queste indagini statistiche specifiche si stanno moltiplicando e molte confortano la nostra impressione. Recenti statistiche dimostrano che tra gli ultrasessantenni il 66% è rappresentato da persone attive e inserite nel mondo che le circonda, ricche di stimoli e curiosità. Solo il 9%, i c.d. “ritirati”, si comporta da vero anziano. E’ di poco tempo fa una statistica ISTAT che ha stimato che, in Italia, su 11 milioni di nonni, almeno 6 milioni svolgono regolarmente e sistematicamente attività di baby sitter per i nipoti, permettendo così ai loro figli di svolgere, con più tranquillità, la loro attività produttiva. Se valutiamo un’attività regolare e sistematica di baby sitter 10.000 euro all’anno, il contributo al PIL dei 6 milioni di nonni, a questo titolo, è di 60 miliardi di euro all’anno (il valore di due finanziarie ammazza cristiani alla Padoa Schioppa). Eppure questi valori non entrano nei dati del PIL, né in altri dati economici sui quali si fanno tanti ragionamenti fuorvianti.
Questa ricerca nazionale dell’ISTAT si incrocia, confermandola, con una ricerca condotta in Lombardia secondo la quale il 65% dei due milioni di nonni che vivono in Lombardia dedica alla cura sistematica dei nipoti venti ore settimanali, dando così un contributo importante ai problemi organizzativi della famiglia. E mi ha molto colpito l’esito di un’altra ricerca empirica recente che dimostra che la famiglia resta la risposta più solida ai problemi posti dalle sfide della vita economica e sociale e che, lungi dall’indebolirsi e sfilacciarsi, la famiglia italiana si sta compattando e rafforzando con un’unione più stretta anche intergenerazionale.
Un imperativo: prolungare l'apporto degli anziani
Una cosa è certa: “La via maestra per attenuare l’onere (dell’invecchiamento della popolazione) consiste nel prolungare l’età attiva. Non solo è importante allungare la serie degli anni in cui la persona si mantiene con il reddito che produce, anziché dipendere dai risparmi precedenti o dall’aiuto altrui. Ma è inoltre importante che l’anziano continui a svolgere il più a lungo possibile un’attività anche nel caso che questa sia poco o nulla redditizia, perché ciò ritarda il suo decadimento psichico e fisico, con beneficio per lui e sollievo (anche materiale) per la famiglia e la collettività. C’è quindi gran bisogno di una politica di ampia portata, che non si limiti alla pura auspicabile posticipazione dell’età di pensionamento, ma persegua con il massimo impegno di mezzi e d’immaginazione la creazione di occasioni di occupazione adatte per gli anziani”. Ho l’impressione che l’auspicio che Giorgio Fuà formulava, con queste parole, nel 1986, sia, in certa misura, in atto nei fatti, mentre la politica di “ampia portata” che pure auspicava sia ancora di là da venire, soprattutto nella testa del sindacato.
Le intuizioni di P. Drucker
Le previsioni economiche basate sulla demografia sono le più affidabili, anche a lungo termine. A dimostrazione di ciò, vorrei sintetizzare cosa scriveva Peter Drucker nel suo libro Managing in Turbulent Times, Ed. Heinemann 1980 (edizione italiana Etas Libri, 1981, Dirigere in tempi di turbolenza: il ruolo del management negli anni ’80):
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Nei paesi sviluppati, dopo la seconda guerra mondiale, vi fu l’esplosione delle nascite. Ma verso la fine degli anni ’50 incominciò una caduta delle nascite senza precedenti (prima in Giappone, poi in USA, Germania e via via tutti i maggiori paesi). Gli unici paesi dove non vi fu “baby boom” né successiva caduta furono i paesi comunisti, dove il tasso di natalità era sempre rimasto bassissimo, non sufficiente a stabilizzare la popolazione.
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Contestualmente è avvenuto in tutti i paesi un cambiamento senza precedenti nell’educazione, che ha innalzato, in modo drastico, l’età di ingresso nella forza lavoro e le aspettative dei giovani che iniziano il loro lavoro e la loro carriera e che sono sempre meno disponibili ai lavori tradizionali.
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Grazie a molteplici fattori, nei paesi sviluppati non solo la vita si è allungata, ma la maggior parte delle persone che raggiungono l’età di sessantacinque anni sono oggigiorno, fisicamente e mentalmente, di “mezza età” e in grado di funzionare normalmente. Prima del diciannovesimo secolo non vi era “età di pensionamento” e non vi erano “piani di pensionamento”; ci si aspettava che la gente morisse giovane. Quando un’età di pensionamento fu introdotta per la prima volta (il concetto fu introdotto da Bismarck nel 1880) non ci si aspettava che la gente raggiungesse tale età (65 anni) e soprattutto non ci si aspettava che la raggiungesse in buona salute e capace di lavorare. I sistemi di pensionamento tradizionali erano progettati fondamentalmente per assistere le vedove e i figli minorenni. Oggi si continua a fingere che l’uomo o la donna che va in pensione cessi di lavorare, ma questa è sempre più un’eccezione alla regola. Una proporzione maggiore continua a lavorare di solito con un datore di lavoro diverso, o a tempo parziale o con lavori occasionali. E, in numero crescente, questi pensionati che non vanno in pensione non dichiarano i loro redditi a un fisco sempre più rapace (P. Drucker sta parlando degli USA). Le richieste dei sindacati europei per un’età di pensionamento “obbligatoria”più bassa possono solo rendere questa ipocrisia ancora più dominante. Il pensionamento tradizionale “obbligatorio” a qualsiasi età prestabilita è morto, in parte perché le persone che raggiungono questa età non possono restare in ozio quando sono ancora in buone condizioni fisiche e mentali ed in parte perché l’economia non può sostenerle in ozio, dato che le persone oltre i sessantacinque anni in tutti i paesi sviluppati si avviano a rappresentare un quinto o un quarto della popolazione adulta.
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Se nulla cambia, nel prossimo futuro i paesi sviluppati si troveranno:
a)con anziani pensionati che lavorano in nero e non contribuiscono più al gettito fiscale
b)con un peso pensionistico non sostenibile
c)con una grave penuria di lavoratori per i lavori tradizionali, soprattutto manifatturieri. -
Nei paesi in sviluppo o a sviluppo ritardato l’evoluzione e la struttura della popolazione è esattamente opposta. Anche in questi paesi i tassi di natalità, contrariamente alla credenza popolare, sono diminuiti ovunque. Ma i tassi di mortalità infantile sono crollati al di là di ogni attesa (quando negli anni ’60 Kennedy lanciò l’Alleanza per il progresso in America Latina, si stimava ancora una elevata mortalità infantile, che invece crollò rapidamente). La caduta della mortalità infantile nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale è uno dei grandi successi dell’umanità. Ma le sue conseguenze devono ancora essere affrontate. Per i prossimi decenni il problema base dei paesi in sviluppo sarà l’occupazione (anche se vediamo che molti paesi, proprio grazie allo sviluppo, raggiungono uno stato di equilibrio della popolazione, per cui, a medio termine, contiamo su un rallentamento del fenomeno).
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Per ora e per i prossimi decenni assisteremo ad una forte pressione di immigrazione verso l’Europa e gli USA, ma poiché questa verrà frenata ed ostacolata, assisteremo a fenomeni massicci di delocalizzazione produttiva. Nella produzione decentrata, le risorse dei paesi in sviluppo – cioè la loro abbondanza di manopodera giovane per attività tradizionali – saranno combinate alle risorse dei paesi sviluppati – il loro management, la loro tecnologia, le loro persone istruite, i loro mercati, il loro potere d’acquisto.
Le proposte di Drucker
Queste grandi tendenze, relativamente facili da leggere nei fatti – scriveva Peter Drucker nel 1980 – richiedono:
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Politiche sociali nuove e diversificate: non ci sarà più una forza di lavoro unitaria, ma “forze di lavoro” ciascuna con aspettative, bisogni, caratteristiche diverse.
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Politiche fiscali nuove e facilitanti nel lavoro, anche parziale, gli ultrasessantacinquenni per non gonfiare le cifre sulla disoccupazione finta, per valorizzare risorse ancora preziose e per ragioni non solo economiche ma psicologiche.
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Politiche del personale da parte delle imprese anch’esse nuove e diversificate, archiviando politiche e prassi che tendono ad essere altrettanto obsolete di quelle dei governi (“Analogamente le persone anziane che sono andate in pensione e che adesso lavorano a tempo pieno o parziale in qualche altro posto sanno come lavorare e, in effetti, spesso vanno a lavorare perché è l’unica cosa che sanno come fare. Ma la loro conoscenza, la loro maturità, la loro esperienza non sono utilizzate nelle attuali politiche del personale”).
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Politiche previdenziali nuove e diversificate, basate sulla nuova realtà della struttura dei lavoratori e sulla realtà delle tendenze demografiche.
“In tutti i paesi diventerà una questione di sopravvivenza economica il fatto che l’età di pensionamento sia posposta e che il pensionamento venga reso flessibile e sia il frutto di una decisione personale”. -
Bisogna favorire una seconda carriera prima dei sessantacinque anni, sia per ragioni economiche che per ragioni psicologiche. Le nostre istituzioni sono piene di persone che dopo i cinquant’anni si annoiano e sono alla ricerca di nuovi stimoli. Questa spinta non va frenata ma agevolata in tempo, perché rinfresca energie mature e apre spazi ad energie nuove. Ciò creerà una domanda crescente di educazione continua per gli adulti.
Si continua a non capire quello che Drucker aveva capito…
Tutto questo era possibile prevedere nel 1980. Perché i politici e la classe dirigente ha prestato così poca attenzione a questi fenomeni di enorme impatto e, in gran parte, prevedibili e dei quali si è incominciato a parlare seriamente in Europa, a livello istituzionale, da non più di dieci anni? Perché essi di solito affrontano il quotidiano ed hanno poca attenzione ai temi di lungo periodo. Ed anche perché i grandi mutamenti nella popolazione tendevano tradizionalmente a verificarsi su una scala temporale molto lunga. Ma nella seconda metà del ventesimo secolo anche i cambiamenti della popolazione, come tante altre cose, hanno mostrato una eccezionale accelerazione. Grandi cambiamenti si verificano ora anche in tempi relativamente e, talora, estremamente brevi.
Ed ora noi ci troviamo esattamente in mezzo alla situazione prevista da Drucker nel 1980. Ma ancora una volta tendiamo a mettere la testa sotto la sabbia e stentiamo ad affrontare, con determinazione, problemi che sono ormai lampanti; ma anche a non cogliere nuove prospettive e opportunità che si stanno chiarendo. Parliamo ad esempio troppo di conflitto tra generazioni e troppo poco di dialogo e collaborazione tra generazioni. Parliamo troppo di paure e troppo poco di prospettive, scoraggiando così le energie positive necessarie per risolvere i problemi concreti. Tendiamo troppo a estrapolare i dati presenti senza domandarci come possono cambiare, nel tempo, le relazioni tra i dati e ciò anche grazie al nostro pensiero, alla nostra azione, alla nostra creatività, alla nostra fantasia.
…guardando solo le negatività e non le positività della nuova situazione
Quasi tutte le fonti e gli studi che mi è capitato di consultare sulla materia dell’invecchiamento della popolazione sono impostati esclusivamente sotto l’angolatura degli effetti dell’invecchiamento della popolazione sulla sostenibilità del sistema pensionistico e sugli effetti che avrà sul sistema sanitario. E quasi tutti sono impostati in chiave deprimente, quando non terroristica.
E’ un po’ come sui temi ambientali. Noi sappiamo che i temi ambientali sono seri e che l’ecologia è una cosa seria e che è necessario essere sempre più impegnati sul tema della salvaguardia dell’ambiente, ma la maggior parte delle cose che ci propinano in materia sono totalmente prive di basi scientifiche e sono, prevalentemente, esercizi terroristici da parte di centrali mondiali, munite di mezzi poderosi (stimati in 8 miliardi di dollari all’anno) per sostenere le loro campagne finalizzate non ad aiutare la gente a capire e ad agire più razionalmente ma a terrorizzare la gente, per acquisire, per questa via, sempre più potere e sempre più denaro. Un anno prima di sparire, Federico Caffé ci lasciò un altro scritto importante proprio sui temi di quello che lui chiamava “il terrorismo contabile”. In tema di previdenza e di sanità noi assistiamo in modo crescente all’esasperazione del problema dei deficit e Caffé affermava di non riuscire a capire bene a che cosa miri “il terrorismo contabile dei disavanzi catastrofici degli istituti previdenziali”. Forse l’obiettivo, si domandava, è quello di una qualche “soluzione finale” (alla maniera della tribù africana, per intenderci)? Allora lo si dica. E soprattutto si comincino a predisporre gli animi, anche sotto il profilo etico, a una “soluzione” di questo genere. Ma ecco esattamente le sue parole: “…. Se si intende che è giunto il momento per qualche forma di “soluzione finale”, per porre rimedio agli squilibri originati da una esagerata longevità, si cominci a preparare le basi etiche, riconoscendo che, con una frequenza preoccupante, la vita non sempre è un dono; né tra i tanti diritti che si intendono tutelare esiste quello del singolo alla morte dignitosa, al momento giusto".
Sono fuori luogo i terrorismi contabili: possiamo sostenere le pensioni degli anziani, purché smettiamo di pensionare i giovani
Secondo il Ministero per l’Economia e la Finanza, la spesa pensionistica crescerà dal 14,1% del PIL del 2002 al picco del 16,2% nel 2034, per poi ridiscendere al 14,1% nel 2050. E allora? Secondo gli esperti dell‘Unione Europea, l’Italia è un paese a “medio rischio” per la sostenibilità della finanza a lungo termine in relazione alla spesa pensionistica. Infatti tra il 2004 e il 2050 questa spesa aumenterà dell’1,7% un dato nettamente inferiore a quello medio europeo del 4%. Se è vero che oggi la spesa previdenziale è del 15% del PIL, è altresì vero che il 12% è coperto da contributi. In una società dove l’invecchiamento della popolazione è una delle caratteristiche fondamentali e destinata a durare a lungo, è così fuori luogo che lo Stato si faccia carico di 2-3 punti di PIL per coprire pensioni che mediamente arrivano oggi al 50% della retribuzione?
Con questo non voglio sostenere che non abbiamo problemi e che non siano necessari interventi correttivi. Voglio solo dire che abbiamo problemi risolvibili e che gli interventi necessari sono possibili e ragionevoli. E, dunque, non c’è spazio, né base, né ragione per il “terrorismo contabile”. Il problema centrale è che se nel 2005 la spesa per le pensioni rappresenta il 15,4% del PIL, quasi un quarto della stessa è assorbita da persone con meno di 65 anni di età. Dunque il nostro problema non è che non riusciamo a sostenere l’onere pensionistico per gli anziani, ma piuttosto è che abbiamo pensionato e continuiamo a pensionare i giovani e questo sì, non ce lo possiamo permettere.
Anche la sanità non è solo un costo
Lo stesso vale per la spesa sanitaria, che sempre secondo il documento del Ministero aumenterà dal 6,3% del PIL nel 2002 all’8,1% nel 2050. E allora? E’ una spesa totalmente sostenibile, come è dimostrato anche dal confronto con altri paesi che già oggi sopportano una spesa sanitaria molto più elevata. Caso mai, si tratterà di spendere meno in altri campi meno importanti. Se la società invecchia e se i vecchi richiedono una spesa sanitaria più elevata, non resta che attrezzarci per far fronte a questo sviluppo ed a questa spesa, salvo che vogliamo adottare la linea suggerita dalla professoressa di Tallinn o quella della tribù africana citata da Federico Caffé.
Il vizio di fondo della maggiore parte dei discorsi che si sentono sulla sanità è che si guarda alla sanità solo come costo, anziché come investimento. Nel 1996 dicevo:
“Oggi il dibattito pubblico è impostato come se la spesa sanitaria fosse solo un costo, anzi un esborso di cassa da contenere e tagliare in tutti i modi, secondo i metodi grossolani del Tesoro, basati su una contabilità cieca e muta ed, in gran parte, insensata, come è la contabilità pubblica. Non vorrei che questa affermazione fosse intesa come una giustificazione alla cattiva gestione. Non vi è dubbio che la gestione della Sanità abbia margini di miglioramento molto grandi, che devono essere perseguiti con rigore e sistematicità. Ma sapendo cosa facciamo e perché, e tenendo presenti le interconnessioni fra ciò che facciamo. Se, ad esempio, noi per risparmiare lo stipendio (esborso di cassa) di alcuni infermieri, dobbiamo tenere inutilizzate strutture organizzate (un know how, specialisti, attrezzature d’avanguardia), mentre le liste d’attesa dei pazienti si allungano, noi facciamo un’operazione, anche economicamente insensata: in questo modo sperperiamo investimenti preziosi e creiamo perdite economiche reali che si tradurranno, per altre vie e in altri tempi, anche in ulteriori pressioni sul tesoro.
Il metodo che il compianto economista Federico Caffé chiamava il metodo del “terrorismo contabile” non è un buon metodo, neanche per ridurre, stabilmente, il peso relativo della spesa sanitaria. La storia ci insegna che per diminuire la spesa pubblica in proporzione al PIL bisogna aumentare la sua produttività e cioè investire (non solo in macchine ma in persone e know how) e gestire più efficacemente (che vuol dire con più libertà e responsabilità per i gestori) quanto investito, e non tagliare disordinatamente e ciecamente per far contento il ragioniere generale dello Stato, il padre di tutte le più grandi manipolazioni contabili. E’ proprio, tra l’altro, la storia delle grandi istituzioni sanitarie, grandi e preziosi investimenti, che ci insegna ciò.
Quanto hanno reso nel tempo, e parlo di resa in termini banalmente economici (cioè minori spese di assistenza a malati cronici, disponibilità di lavoratori sani) gli investimenti fatti nelle grandi istituzioni sanitarie, nei grandi programmi di ricerca, nelle campagne per battere le grandi malattie endemiche? Ricordiamo la poliomielite? Quanto costava all’anno (ed ancora parlo intenzionalmente di costi in senso solo economico, senza mettere sul piatto i più complessi e non stimabili costi della sofferenza umana) alle persone colpite; alle famiglie delle stesse, agli enti assistenziali, a tutto l’apparato che doveva fronteggiarla, questa diffusa malattia? Certo molto, molto di più della spesa del vaccino, la cui applicazione fu, peraltro, da noi ritardata di alcuni anni anche per ragioni pseudoeconomiche, cioè per il terrorismo contabile di cui parlava il professor Caffé.
Un recente rapporto dell’organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e dell’UNICEF sul “Programma mondiale vaccini e vaccinazioni” ricorda che è in atto, tra mille difficoltà economiche, un programma per l’eradicazione mondiale delle poliomieliti entro il 2000 (nel 1995, 300 milioni di bambini sono stati vaccinati durante una sola campagna). Questo obiettivo, se raggiunto, comporterebbe un risparmio di spese vive nei soli paesi in cui la vaccinazione è obbligatoria di 1,5 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono i risparmi di cura e assistenza nei paesi che sarebbero liberati dalla malattia.
E ricordiamo quella straordinaria operazione che nell’immediato dopoguerra portò all’estirpazione, in tante zone d’Italia, del millenario flagello della malaria? Fu una vera epopea che combinò misure sanitarie in senso stretto, interventi igienici colossali, interventi di risanamento del territorio, facendo anche lavorare la mano d’opera disoccupata di quelle zone. Quanto costò? Certo non poco. Ma quanto fruttò nel tempo e quanto continua a fruttare? Credo che qui il calcolo sarebbe più difficile ma che porterebbe a risultati veramente impressionanti. Una bellissima storia quasi dimenticata.
Ma il problema della sanità è che, come e più ancora che in altri settori, esiste una differenza temporale tra il momento in cui si sostengono i costi, in cui si investe, ed il momento in cui si evidenziano e si possono misurare i risultati; e che esiste una differenza fra chi guadagna dalle cure e terapie e chi risparmierà dal risultato delle stesse. Capire e gestire queste differenze nel tempo e fra diversi soggetti è l’essenza di una buona politica sanitaria (che è sempre il risultato di un’equazione molto complessa), buona politica, del resto impossibile sino a quando non la proietteremo in una prospettiva di lungo respiro, liberandola dal “terrorismo contabile” e dall’ideologismo e dal provincialismo nei quali è, attualmente, immersa”.
Io credo, in definitiva, che la crescita della popolazione anziana possa essere vista non in chiave lugubre e terroristica, ma in chiave positiva, un’occasione per migliorare la nostra società, per migliorare noi stessi. La premessa di tutto è che la longevità è un bene e non un male e che dobbiamo imparare a convivere e collaborare meglio tra generazioni.
Conclusioni
In questa prospettiva possiamo concludere elencando alcuni punti principali che, in parte, riprendono alcune cose già dette.
1. Anzianità attiva
- Alzare l’età della pensione, ma in chiave assolutamente flessibile, diversificata e personalizzata. E’ di questi giorni la notizia che il governo tedesco si appresta a presentare al Parlamento una proposta, che ha il consenso di tutta la Grande Coalizione, per portare l’età della pensione a 67 anni. Chi vorrà andare in pensione prima avrà una proporzionale riduzione della pensione. Sono assicurate norme per l’ingresso graduale del nuovo sistema ma questo si applicherà automaticamente a tutte le generazioni a partire dalla classe 1964.
Ha suscitato attenzione giornalistica il fatto che l’Elettrolux-Zanussi di Pordenone abbia richiamato al lavoro un certo numero di capi-reparto e capi-linea pensionati. Ma non si tratta di un caso isolato, bensì emblematico. I direttori del personale, dopo i grandi esodi forzati degli anni ’90, si stanno accorgendo che le loro imprese devono fare i conti con deficit di competenze. Il recupero da parte delle aziende di professionalità più mature è un vero cambio di rotta rispetto al recente passato, se è vero che una recente indagine ISTAT ha registrato come la metà circa dei nuovi occupati sia costituita da persone oltre i 50 anni. Dal 2004 al 2006, la quota degli ultracinquantenni sul totale degli occupati è salita dal 21,4% al 22,7%. Il tasso di occupazione tra i 55 e i 64 anni resta in Italia il più basso d’Europa con il 31,4%, contro il 45,5% della Germania, il 60,8% degli USA e la media UE dei 15 del 43,9%, ma è in crescita. - Aiutare una seconda carriera per gli anziani, sia all’interno delle imprese che fuori, più adatta all’età e all’esperienza. Grandi spazi di attività si aprono per gli anziani attivi nelle occupazioni socialmente utili. Bisogna far sì che gli over 65 sani e attivi continuino a produrre, ma senza porsi in concorrenza con i giovani. Ciò sia per lasciare spazio ai giovani, che per stimolare gli anziani a rinnovarsi e trovare nuove motivazioni e ad utilizzare al meglio l’esperienza accumulata. Questa tendenza potrebbe essere fortemente incentivata da una politica fiscale e contributiva intelligente, lungimirante, coraggiosa e fortemente innovativa.
Possono aiutare anche forme innovative di part-time, nonché la promozione di opportunità di lavoro comune tra anziani e giovani, con gli anziani che svolgono attività di tutoraggio, guida, training sul campo (job sharing).
2. Anziani e vita sociale
Per evitare la solitudine e la demoralizzazione come quelle che hanno determinato la fuga nel nulla di Federico Caffé, bisogna far crescere nella società e nei giovani un senso di rispetto e di gratitudine verso gli anziani. Se esiste questa convinzione, che è morale ed esistenziale, gli strumenti e le soluzioni pratiche per concretizzarla sono infinite. Ne elenco alcune disordinatamente, a titolo di esempio:
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Favorire il ruolo della famiglia che vive stabilmente con anziani, sia anziani membri della famiglia che anziani ospitati. Anche qui lo strumento fiscale intelligentemente utilizzato potrebbe fare miracoli.
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Sviluppare tutte le tecnologie che favoriscono l’inserimento sociale degli anziani e quelle che ne agevolano la vita.
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Favorire la socializzazione attraverso centri anziani, eventi, feste e manifestazioni, attività ludiche e sportive. Molto apprezzabile, ad esempio, la festa dei nonni promossa dalla Regione Lombardia e che quest’anno ha segnato la terza edizione. Favorire analoghe iniziative private come l’associazione “Nonni d’Italia”, nata nel 2006 a Monza e che in poco tempo ha raggiunto 1440 soci.
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Favorire l’impiego di servizi di volontariato per la cura degli anziani e favorire l’ingresso delle badanti straniere (stimate in 700.000 in Italia, il 40% delle quali è sottoposto ad un racket di importatori che genera un giro d’affari di 300 milioni di euro all’anno).
3. Anziani e assistenza sanitaria
Ho parlato prevalentemente di anziani attivi, di anziani sani, che possono e vogliono partecipare alla vita attiva perché, come scrive Gianpaolo Fabris “la maggioranza della popolazione di 60-70 anni non vive con l’angoscia di assillanti problemi economici, dispone di un buon livello di scolarizzazione, è partecipe di molti degli stati di vita della modernità, a cui, entrando in una nuova fase del ciclo di vita, non intende rinunciare”; perché secondo l’ISTAT il 40% degli ultrasessantacinquenni dichiara uno stato di salute buono o molto buono; ed infine anche perché la maggiore parte dei testi consultati dà invece un quadro lugubre sia degli anziani che dei vecchi.
Tutto ciò però non deve certamente faci dimenticare che molti anziani vivono, invece, in condizioni di indigenza, di solitudine, di salute precaria. A Milano, dice il Prof. Vergani, “un terzo degli anziani vive solo e un anziano su quattro percepisce una pensione che lo colloca al di sotto della soglia di povertà”. Nei confronti di questi dobbiamo fare un grande sforzo collettivo, senza farci fuorviare da “terrorismi contabili”. Lo dobbiamo di fronte a noi stessi, per coerenza con il profilo di una città civile nella quale, nonostante tutto, continuiamo a credere ed a voler vivere. E’ un grande sforzo possibile e necessario al quale tutti (famiglie, imprese, Stato, Comuni) devono partecipare. E dobbiamo concentrare gli sforzi sui più bisognosi, cosa che oggi non facciamo se è vero quanto scrive Luca Beltrametti dell’Università di Genova: “Le persone con non autosufficienza più grave e più povere sono in Italia fortemente penalizzate” . Dobbiamo impegnarci per una situazione nella quale il problema della sostenibilità economica degli anziani non autosufficienti non sia più un problema, ma solo un compito acquisito e realizzato. Anche qui gli strumenti sono molteplici, dall’assistenza domiciliare, a contributi alle famiglie che assistono un anziano, strutture residenziali extraospedaliere, reti di sportelli pubblici, fondi di prevenzione per l’assistenza sanitaria. Questa spesa è semplicemente un dovere imprescindibile e se ci costa un po’, vuol dire che risparmieremo su altre cose.
Credo che i centri geriatrici che svolgono attività sanitaria preventiva e assistenza psicologica e che funzionano anche come punto di incrocio di una rete di contatti e conoscenze, siano preziosi. E’ per questo che quando un tale centro nacque nel Policlinico di Milano feci di tutto per sostenerlo, forzando la resistenza dei primari che, in grandissima maggioranza, non lo volevano e cercarono di impedirne la realizzazione.
4. Alzare il tasso di natalità e il saldo netto della popolazione attraverso l’immigrazione
La società anziana, dunque, non solo è sostenibile, ma può essere una società migliore, più civile, più basata sulla collaborazione anziché sul conflitto tra generazioni. Piuttosto noi dovremmo preoccuparci dei giovani, stando ad un recente sondaggio condotto da Mannheimer per conto dell’associazione “Libertà eguale”. Da questa indagine viene fuori il quadro di giovani corporativi, poco ambiziosi e che ragionano da vecchi, come e più dei vecchi., Dal 2001 ad oggi la percentuale di quanti preferiscono un lavoro sicuro, anche se meno redditizio, passa dal 55% al 71%; l’ambizione è riconosciuta come valore solo dal 9%dei giovani; giovani e vecchi optano nella stessa misura (78%) per riformare il mercato del lavoro nel senso che si accentuino le tutele. Commenta Luigi Covatta sul Corriere della Sera: “I gerontocrati possono dormire sonni tranquilli. I giovani stanno gradualmente rinunciando all’ambizione di sostituirli in fretta” (come invece sognava la energica guida professoressa di Tallinn). Questo è anche frutto dei frastuoni terroristici con i quali abbiamo spaventato i giovani: terrorismo ambientale, terrorismo economico, terrorismo contabile sanitario e previdenziale. Però stiamo anche attenti a non dare eccessivo peso a queste indagini che non sempre hanno il peso scientifico che dovrebbero avere.
La maggior parte degli over 65 può e deve (nel loro stesso interesse) continuare a lavorare, sia pure su forme diverse e più adatte all’età. Ciò non toglie che esplicite politiche a sostegno delle famiglie (che oggi sono fiscalmente danneggiate), delle giovani coppie, della casa per le nuove coppie, possono contribuire a far alzare di qualche decimale (verso la media europea) il tasso di natalità e ciò non toglie che gli immigrati regolari possono raggiungere tranquillamente almeno il 10% degli occupati. Queste due misure possono invertire il trend verso la diminuzione della popolazione, che è cosa comunque cattiva, sia da un punto di vista economico, che sociale, che morale. Esse possono definitivamente chiudere la bocca agli agenti del terrorismo contabile ed insieme far felici e far sorridere gli anziani, che avrebbero più possibilità di diventare nonni.
Perché essere anziani e senza nipotini, questo sì, è molto triste per tutti, anche per gli anziani attivi e sani. Perché in realtà nessuno di noi è autosufficiente.
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- Marro Enrico, “Riforma delle pensioni, noi ci stiamo” – Intervista a Pier Paolo Baretta (Segretario aggiunto CISL), in Corriere della Sera, 16.10.06
- Uccello Serena, “Electrolux richiama i pensionati”, in Il Sole 24 Ore, 17.10.2006
- Uccello Serena, “Competenti e fedeli: per gli over 50 più posti in azienda”, in Il Sole 24 Ore, 19.10.2006
- Vitale Marco, “Sanità ed economia”, in La Ca’ Granda, Vita ospedaliera e informazioni culturali, n. 1/2003
- Vitale Marco, “Gli anziani, lo sport e l’economia”, in Club 3, settembre 2006
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