che parta dal basso, dai settori amatoriali, come ha auspicato Marco Vitale nell’articolo
"Stasera tiferemo Italia nonostante tutto"
da noi pubblicato il giorno dell’esordio della Nazionale italiana nello
stadio di Hannover. Ma che contributo può arrivare a questa
moralizzazione dalla componente amatoriale rappresentata dai ragazzi e
dai "pulcini", cioè da quei settori che dovrebbero essere gli alfieri
del gioco del calcio inteso nel senso più autenticamente sportivo? Ce
ne parla, con toni tutt’altro che ottimistici, il nostro Gino Nobili da
poco rientrato da un week end a Coverciano
corretto il ragionamento che Lei sviluppa nel suo articolo sulla crisi
del calcio italiano. Potremo uscirne, Lei afferma, con interventi seri
di governo e parlamento e con lo stimolo della parte sana del calcio.
In particolare, con lo stimolo di "quella componente non
piccola del calcio per bene, amatoriale e professionistico, e quella
parte di tifosi che ancora crede che non basti vincere ma che bisogna
vincere pulitamente e onestamente. Giocatori, allenatori, dirigenti di
squadre minori, appassionati sostenitori del calcio amatoriale, sindaci
di città".
Tutto giusto. E però… Ho letto quella sua riflessione subito dopo
essere tornato da un weekend a Coverciano, trascorso alla festa
nazionale delle scuole calcio italiane. La lettura mi ha fatto davvero
un certo effetto, maggiore che se mi fosse capitato di farla in un
altro momento. Si è trattato, mi creda, di un’esperienza traumatizzante.
altre volte mi era capitato, magari perchè ero andato a prendere i
nipotini per riportarli a casa, di imbattermi in canee ululanti di
genitori tutti convinti che il loro pargolo era il migliore della
squadra (il migliore in campo o l’ingiustamente escluso, a seconda dei
casi). Il bambino di questi genitori, incitato a dare sempre il massimo,
"drogato" di tensioni competitive, non viene tirato su come una creatura da lasciar
crescere nel rispetto delle delicate esigenze dell’età evolutiva ma
come un capitale da valorizzare al più presto, un pacco di milioni in
cammino. Ma l’evento nazionale cui ho assistito in questo week end
mostrava il fenomeno a un livello davvero parossistico, sia per la
concentrazione di aspiranti campioni sia perchè raccoglieva le squadre
che avevano vinto i rispettivi campionati regionali di categoria.
Squadre, quindi, di presunti e pretesi futuri Totti, Nesta e Gilardino.
Stavo lì e mi si accavallavano pensieri disorganizzati su cui dominava
il senso di tristezza, e la percezione netta che oramai siamo un Paese
dove salvo fortunate eccezioni l’unica vera forma di mobilità sociale
possibile è – nell’ipotesi migliore – fare carriera nello sport
o nello spettacolo (i saggi di danza delle bambine non sono diversi, a
un livello ancora più basso ci sono i casting televisivi delle
ragazzine). E nella criminalità organizzata, ovviamente in certe zone,
nella peggiore.
In quasi tutti i ragazzini prevaleva, visibilmente, la consapevolezza
di stare in vetrina sulla voglia di giocare e divertirsi. E gli
allenatori erano altrettanto visibilmente convinti di essere tutti
Lippi e Capello momentaneamente adibiti a compiti indegni di loro. Se
le capita di visitare una scuola calcio le verrà voglia di prenderli a
ceffoni. Riempiono la testa di schemi e ruoli e preparazione e
gerarchie di valori di mercato a ragazzini di meno di 10 anni, a cui
dovrebbero piuttosto insegnare la tecnica individuale (cosa che invece
non fanno). Risultato, se oggi nasce un Rivera, lo fanno smettere
subito.
Caro professore, se questo è il calcio "amatoriale" di base, in cui la
mercificazione dei valori dello sport comincia a otto anni, non c’è
affatto da stupirsi di quello che accade a livello professionistico. E
le nostre speranze di uscire dalla crisi appaiono molto ma molto scarse.
Un cordiale saluto, con stima, Suo Gino Nobili