Che fine sta facendo la ricerca in Italia – o forse meglio, che fine stanno facendo i ricercatori e soprattutto gli aspiranti tali, costretti a inseguire, spesso fino a quarant'anni, il miraggio di una posizione stabilizzata che li gratificherà con un compenso di ben 1050 euro al mese? E questo non crea forse una grave discriminazione di classe tra chi ha una famiglia abbiente alle spalle, che gli permette di rimanere per anni quasi senza alcun compenso nell'ambiente accademico per fare quelle ricerche che gli permetteranno, chissà se e chissà quando, di diventare ufficialmente “ricercatore” e chi – non avendo questa fortuna – a un certo punto è costretto ad alzare bandiera bianca, buttare via anni della sua vita e cercarsi un altro mestiere o un altro Paese? Sarà probabilmente proprio quest'ultima la scelta dell'autrice di questo articolo-confessione. E se questa evidentemente è la via italiana alla ricerca non c'è nulla che noi possiamo fare. Neppure provare a dire “Alessandra rimani”.
Alla fine del Novecento ci hanno educato all’idiomaticità de “La fuga dei cervelli”. Ma se così fosse, mi domando, ci dovrebbe essere una volontà del soggetto agente, determinata da una scelta. E invece no. Non è una scelta, è una fuga. La scelta non è data a chi, come noi, ha dedicato le proprie giornate tra biblioteche e ricerca empirica, tra vie sperimentali post-moderniste e posture da pensatori in esilio. Abbiamo dovuto correre sulla fluidità della scia di emigranti di successo, e ci siamo rivolti all’universo della ricerca in posti d’eccellenza che non sono certo quelli della nostra penisola.
Purtroppo l’Accademia, che rappresenta da sempre il centro gravitazionale del potere da cui dovrebbero uscire le menti funzionali al benessere del Paese, oggi è vessillo di ignoranza di un’élite. E in un mondo dove l’identità del soggetto si risolve nel ruolo professionale ricoperto nella società noi aspiranti ricercatori, con il mito solipsistico dell’accademia platonica, siamo allo sbaraglio.
Inutile mettersi ad elencare la quantità di titoli acquisiti in questi anni: riconoscimenti, premi e borse di studio a livello internazionale. A soli 30 anni questo mi sembrava potesse essere il punto di partenza per continuare a fare ricerca e porre le basi per iniziare a lavorare; magari, anche per smettere di fare volontariato per i baroni tracotanti che troneggiano ancora oggi nelle Università. Avere un Maestro, continuare ad essere un allievo. Insomma, ricevere ciò che ritengo sia il giusto percorso per chi, come me, sopravvive nell’attesa di un misero concorso da ricercatore per 1050 € al mese.
Ma di fatto ormai la ricerca, e con essa l'università, stanno diventando una riserva per giovani che appartengono ai ceti sociali più abbienti, e che soli si possono permettere di vivere fino a quarant’anni alle spalle della famiglia di origine. L'Università sta allontanando a poco a poco tutti i giovani dotati ma privi di mezzi, non solo perché li confina, se va bene, in un ruolo ultra-precario, ma anche perché – quando li fa lavorare in piccoli incarichi collaterali – non li paga. Che le burocrazie universitarie ci mettano un anno e anche più per versare a questi giovani quel misero compenso che gli dovrebbe servire non per studiare, ricercare, aggiornarsi, ma solo per sopravvivere è un delitto. In questo modo si sta facendo diventare la carriera universitaria un privilegio di classe.
E questo mi fa pensare ai colleghi europei che alla mia età hanno la possibilità di fare ricerca, e perfino con un dignitosissimo reddito.
In Italia quelli che si trovano nelle mie condizioni sono invece un esercito di persone beffate da questa vocazione, ormai bandita, ormai divenuta esplicitamente inutile nel nostro mondo. Abbiamo fatto manifestazioni, ci siamo ribellati con sit-in e scioperi bianchi, abbiamo chiesto protezione a “San Precario” nella speranza che nulla peggiori (se non altro). Ma lo stagnare di questa situazione mi porta a guardare fuori le porte. Vado in esilio. Addio materna mia terra, mai più avrai il sorriso di questa tua “figlia”.