LEON: PREPARIAMOCI A 5 ANNI DURI. MA POI CINA E INDIA CI AIUTERANNO A RILANCIARCI.A CONDIZIONE CHE..

articoloImpraticabili ormai le ricette keynesiane, bisognerebbe sostenere i consumi con  aumenti salariali. Prima però dobbiamo accrescere la competitività delle imprese con l’aiuto del sistema bancario, che va cambiato: ma non come pensava Fazio. Che deve andarsene..

intervista di Giancarlo Fornari


Per Paolo Leon, docente di Economia Pubblica presso l’Università Roma Tre, gli ostacoli ad uscire dalla recessione attuale dipendono anche dalle carenze del sistema bancario. Un sistema di banche nazionali non è funzionale a un sistema produttivo come il nostro, fatto di imprese locali. E’ questo che Fazio e i “faziosi” non hanno capito, nel favorire scalate e agglomerazioni: si sono sentiti padroni di risorse cui non avevano titolo, dal punto di vista economico e sociale. Compito del centro sinistra, quando andrà al governo, dovrà essere quello di creare un nuovo rapporto tra banche e imprese, trasformando in legame virtuoso quello che adesso si presenta come un intreccio di interessi speculativi e una sovrana noncuranza del destino produttivo dei propri impieghi. La strada della ripresa passa in primo luogo da questo cambiamento nella politica del credito, in assenza del quale le piccole e medie imprese esportatrici non saranno mai in grado di competere nella difficile situazione creatasi con l’apprezzamento dell’euro e la sempre più invadente presenza di India e Cina. Ma passa anche attraverso una diversa distribuzione del carico fiscale, ottenuta anche mediante l’inasprimento della tassazione sulle rendite e sui guadagni di capitale…

D. Leon, proviamo a fare un giro di orizzonte sui problemi della nostra economia; cominciando, ad esempio, dall’inflazione indotta dai continui rincari del petrolio.
R. Il rincaro del petrolio dal punto di vista dei riflessi sull’economia è meno rilevante di quanto appaia, in quanto influisce in modo più o meno uguale sui prezzi di tutti i paesi. Naturalmente c’è qualche differenza tra chi utilizza più petrolio e chi meno, però i prezzi delle varie fonti di energia sui mercati alla fine tendono ad allinearsi.

D. Questo significa che i rincari del petrolio non agiscono sul versante della competitività del sistema paese. Incidono però sui redditi delle famiglie.
R. Certamente sono rilevanti per il reddito disponibile delle famiglie, ma anche delle imprese. Questo è vero in tutto il mondo. La differenza sorge se l’economia per altre ragioni non cresce; allora questo fattore di inflazione che proviene dall’esterno determina una riduzione dei consumi delle famiglie e comprime ulteriormente le possibilità di crescita dell’economia.
Comunque mi sembra opportuno aggiungere che non condivido l’opinione molto diffusa in questo periodo, secondo cui la nostra competitività si sarebbe ridotta in maniera drastica. Qui bisogna fare qualche distinzione. Le nostre esportazioni non vanno male, anzi vanno relativamente bene. Certo, non riusciamo a mantenere le nostre posizioni nel commercio mondiale perché la Cina sta assorbendo ormai una quota gigantesca degli scambi, ma in termini reali espressi in euro o in dollari, le nostre esportazioni crescono del 5-6 per cento all’anno, molto di più del reddito nazionale.

D. Il saldo della bilancia commerciale è però negativo.
R. Il saldo è negativo perché le importazioni crescono più delle esportazioni. Le ragioni del saldo negativo non stanno però solo nel fatto che le merci cinesi o indiane costano meno di quelle che produciamo. Il problema sta anche nel mercato interno, che non funziona perché i redditi delle famiglie sono troppo bassi per poter acquistare le merci che noi esportiamo all’estero. I redditi si riducono perché l’inflazione trainata dal petrolio fa salire i prezzi, l’imposizione fiscale rimane alta e i salari crescono poco. Poiché le merci che esportiamo sono di qualità, altrimenti non le esporteremmo, la domanda si sposta su merci importate a basso costo.
La nostra crescita potrebbe essere migliore e con essa potrebbe migliorare anche la competitività se avessimo più soldi da spendere e questo significa che i salari sono troppo bassi e che la moderazione salariale è durata troppo a lungo.

D. Una spinta salariale sarebbe quindi utile in questa circostanza?
R. In questa fase una spinta sindacale avrebbe effetti positivi sullo sviluppo, aiuterebbe i distretti in crisi – tipo tessile, abbigliamento, calzature, un po’ anche il mobile – a superare le loro difficoltà.

D. Una crescita dei salari non rischierebbe di far decollare l’inflazione?
R. No, se ci troviamo in presenza di una capacità produttiva inutilizzata. E se mettiamo a disposizione delle piccole e medie imprese quelle linee di credito e quegli incentivi all’innovazione a cui oggi spesso non possono accedere. Ma la questione del credito merita un discorso a parte.
D’altra parte, la gestione della politica monetaria è nelle mani di un’autorità europea, e l’euro non reagisce così direttamente alle eventuali pressioni inflazionistiche italiane. In ogni caso, se esiste una capacità produttiva inutilizzata – e certamente esiste in molti settori – l’aumento dei salari che si spende su merci italiane non crea nessun problema. Il problema c’è se gli italiani continuano a comprare merci cinesi o indiane o di altri paesi.
Ovviamente in tutta la nostra situazione pesa l’effetto dell’euro. Avere due anni di sopravvalutazione dell’euro ha ridotto la competitività delle merci e incentivato le importazioni.
Ma c’è un secondo meccanismo che è ancora più importante perché è universale. La riduzione del valore del dollaro non ha determinato una riduzione del disavanzo americano. Al contrario, il disavanzo americano cresce con la svalutazione del dollaro, il che significa che il motore americano della crescita mondiale c’è – perché le loro importazioni continuano a crescere – ma mentre prima le importazioni venivano anche dall’Europa, adesso vengono prevalentemente dalla Cina, dall’India e dal Giappone. Il motore americano non è più orientato alla crescita europea. Questa è la vera novità.
Ma c’è un altro punto importante, e riguarda il finanziamento del disavanzo americano. Questo disavanzo deve essere alimentato, e viene alimentato con capitali che provengono anche dall’Europa. Era così anche nel passato, ma allora c’era il motore della crescita. Il reddito cresceva, con il reddito crescevano i risparmi e una parte di questi risparmi tornava in America. Adesso non c’è crescita e una parte dei risparmi – sia pure ridotta – continua a prendere la strada dell’economia americana. Così siamo danneggiati sia dal lato della domanda – perché non possiamo più avvantaggiarci delle importazioni americane – sia da quello dell’offerta – perché una buona parte del risparmio italiano ed europeo continua a spostarsi negli Stati Uniti.

D. Tutto questo ci fa pensare che nel medio periodo ci troveremo di fronte a uno scenario molto nero, una depressione indotta dallo strapotere dei giganti asiatici e dalle sinergie che riusciranno a innescare con l’economia americana. Schiacciati dalla riduzione delle esportazioni e dalla crescita dei prezzi delle materie prime, di cui Cina e India avranno sempre più bisogno. E’ questa la tua visione?
R. Niente affatto. Ci sono due ragioni che mi rendono meno pessimista. Primo, l’aumento dei redditi in queste economie determinerà un aumento dei consumi, e in questa fase noi siamo avvantaggiati. E’ vero che altri competitori europei sono più avanti di noi, oggi, quanto a investimenti, ma noi possiamo recuperare questo svantaggio aumentando la nostra quota di esportazioni a mano a mano che i redditi crescono. Ci sarà una nuova fase in cui torneremo ad essere competitivi a livello mondiale.
Il nostro problema è superare il periodo che ci separa da questa fase.

D. Saremo ancora vivi alla fine di questo periodo?
R. Non sarà un periodo troppo lungo. Ci sono dei problemi legati alla natura dei sistemi politici sia in Cina che in India che non consentiranno a questi paesi di tenere per tanto tempo ritmi di crescita elevati come quelli attuali. Se la produzione industriale continua a crescere, e con essa l’occupazione, questi sistemi entrano in crisi. Se sono bravi cercheranno di cambiare per tempo le condizioni politico-sociali – per esempio, in Cina, cominciando a dare autonomia al sindacato. D’altra parte l’economia cinese è già oggi molto aperta alla presenza di imprese di tutto il mondo, e questo dovrebbe scongiurare il rischio di scosse politiche traumatiche tipo quelle subite dall’ex Unione Sovietica.
A seguito di questi cambiamenti la crescita sarà sicuramente meno forte ma comincerà ad espandersi socialmente e a toccare strati di popolazione che oggi ne sono esclusi. E quindi – considerato che stiamo parlando di centinaia di milioni di persone – si assisterà comunque ad una espansione di grandi dimensioni dei redditi delle famiglie. Diminuiranno le importazioni di beni di investimento ma aumenteranno quelle dei beni di consumo.

D. Ed è a questo punto che dovremmo rientrare in gioco noi.
R. Questa è per l’appunto la prospettiva che mi rende meno pessimista sul nostro futuro. Ma c’è un altro elemento che avrebbe un grande rilievo in questo scenario. Sarebbe importante che cinesi e indiani, per non parlare dei coreani e dei giapponesi, cominciassero a denominare una parte dei loro contratti in euro. Se l’euro diventa uno strumento di riserva internazionale potremo avere in Europa un sistema finanziario molto più positivo. Altrimenti tutto lo sforzo fatto per crearlo non serve a niente.
Naturalmente questo dovrebbe avvenire con l’accordo degli americani, perché non so immaginare come possa non esserci un qualche accordo tra le due monete che le metta in equilibrio. Questo accordo, però, non potrebbe mai farlo Bush. Se rimangono i repubblicani – specie “questi” repubblicani – il dollaro è destinato a subire ancora l’asimmetria della situazione finanziaria internazionale.

D. Quanti anni pensi che potrebbe durare questo nostro periodo di purgatorio?
R. Direi all’incirca cinque anni. Certo non potremmo resistere questi cinque anni senza fare nulla.

D. Ecco, vediamo cosa dovrebbe fare il governo che verrà.
R. Ci sono purtroppo delle cose che si dovrebbero ma non si possono fare. Non possiamo fare politiche di domanda, ovviamente. Dobbiamo tenere il disavanzo dentro i Trattati e non abbiamo il governo della moneta. Quindi ci manca del tutto la possibilità di attivare la crescita attraverso la domanda – che sarebbe la condizione decisiva. Neppure possiamo ipotizzare robusti sgravi fiscali. Anche la crescita dei salari – di cui parlavamo all’inizio – non è una strada per la crescita se l’economia è totalmente ferma.
Rimane un’unica via, a mio parere, per innescare il processo di crescita, ed è quella di agire –  attraverso il sistema bancario – sulle condizioni finanziarie della produzione. Legando, cioè, il credito bancario alle necessità reali delle imprese.
In Italia abbiamo un sistema bancario nazionale mentre abbiamo, ormai, solo industrie locali. C’è una divaricazione strutturale che impedisce l’allocazione ottimale del risparmio. In questi ultimi dieci anni si è andati verso una agglomerazione del sistema bancario in poche entità molto grandi. Rimane una piccola costellazione di banche locali, peraltro ininfluenti nell’insieme.
Questa situazione non è stata tanto grave finché le piccole e medie imprese italiane hanno esportato con relativa facilità, vale a dire fino al 2001-2002, e si sono autofinanziate.
Quando è arrivata la stretta – l’euro è diventato forte e la Cina ha cominciato a rappresentare un temibile competitore – le imprese non hanno avuto più le risorse per riattrezzarsi in modo da poter affrontare la competizione. La competizione per la verità sono in grado di affrontarla – si vede dalle cifre delle esportazioni – ma non hanno le dimensioni per allargare questo mercato. E le dimensioni si allargano solo con il credito bancario. Ma il credito bancario è nazionale e non locale.
Io non sto dicendo che dobbiamo creare delle banche locali. Dico che le banche nazionali non stanno facendo il lavoro che le banche dovrebbero fare. Quando Fazio insieme con i Fazisti (anzi, direi meglio i “Faziosi”) dice che le banche devono essere italiane, dice una cosa senza senso perché non si rende conto che se la banca è italiana ma è sempre più grande non solo è sempre più lontana dalle esigenze del territorio ma è sempre più internazionale e meno italiana. Dopodiché non può lamentarsi se il resto del mondo cerca di comprarsi le banche italiane.
E in questo paradosso si racchiude tutta la politica creditizia italiana, che è assurda perché non ha alcun nesso con il finanziamento dell’attività produttiva.
Pensa che in tutte le concertazioni che vengono fatte a livello nazionale, regionale, locale, il sistema finanziario non è mai presente. Pur essendo una delle leve essenziali per lo sviluppo.
Non abbiamo creato nessuno strumento per favorire la capacità di innovare, ricercare, cambiare settore di produzione, processi, prodotti. Fino all’altro ieri avevamo un sistema di incentivi tutti generici, solo una piccolissima parte erano dedicati all’innovazione. Dopo che sono stati trasformati dall’ultimo governo in incentivi destinati all’abbattimento degli interessi, non vale neanche la pena di parlarne. Non solo, adesso alle imprese verrà tolto il TFR, che rappresentava una fonte importante di finanziamento. Sono 25.000 miliardi l’anno che vengono sottratti al finanziamento delle imprese, soprattutto di quelle medie. Ma soprattutto alle imprese mancano le garanzie per poter ottenere il credito. Io penso che un sostegno governativo in questa direzione potrebbe ottenere l’avallo della UE, perché non si tratterebbe di incentivare il credito ma di aumentarne la disponibilità.
La prima grande condizione per il miglioramento dell’offerta passa, quindi, per una nuova, grande politica del credito. La banca non è la stessa cosa di qualsiasi altra azienda, checché ne dicano molti economisti. Il credito è un grande strumento di creazione di valore e un grande strumento di potere. E qui nel nostro paese ci scontriamo con una difficoltà. Avremmo bisogno di quello che una volta Prodi chiamava il modello renano, e cioè un maggiore rapporto tra banca e impresa, che esiste in Germania, in Francia e in Inghilterra e che non esiste da noi.

D. Beh, se è per questo esiste a livelli incestuosi, con i finanzieri d’assalto e gli speculatori edilizi che comprano pacchetti di azioni delle banche, entrano nei loro consigli di amministrazione e ottengono prestiti a condizioni di favore. Non per investire in attività produttive ma per realizzare grossi guadagni di capitale comprando e rivendendo azioni della stessa o di altre banche o sviluppando nuove speculazioni. Rapporti tra amici. Furbetti del quartierino.
R. Certo, esiste una grande commistione di interessi speculativi ma non una commistione imprenditoriale. Questo ti conferma che la banca non è assimilabile a qualunque altra impresa, perché con la banca si possono fare operazioni di tanti tipi. Ecco perché occorre definire al più presto delle regole per il sistema bancario. Poiché l’Unione europea non ha voluto farlo, dobbiamo farlo noi.
La storia dell’economia dell’ultimo secolo ci dimostra quanto sia stato essenziale il rapporto tra banche e imprese in alcune fasi cruciali come lo sviluppo della Francia e della Germania, la ricostruzione italiana, la crescita del Giappone. Sono tutti esempi di crescita attraverso un sistema del credito che sopperisce a un mercato dei capitali inesistente – e quindi alla impossibilità di finanziamento tramite il risparmio azionario. Noi siamo in uno di quei momenti.
C’è un cambiamento gigantesco da fare, e se il centro-sinistra andrà al governo mi auguro che lo capisca. E che non pensi in maniera astratta che la banca possa essere separata dalle politiche industriali. Tanto più che non sarà mai separata proprio perché, altrimenti, si impongono quei rapporti incestuosi di cui parlavi.
Quello che adesso si presenta come un intreccio orrendo di interessi speculativi si deve trasformare in un rapporto virtuoso tra banca e impresa.

D. Da rapporto vizioso a rapporto virtuoso. Non sarà facile. In ogni caso: la chiave per la ripresa dello sviluppo – il punto dove dare la martellata – è il sistema bancario. E’ così?
R. Non ho dubbi in proposito. Bisogna riuscire a creare nuove regole per il credito. E poi cambiare il sistema degli incentivi. Includere le banche nella concertazione. Sindacati e Confindustria devono poter trattare con governo e sistema finanziario in modo che le responsabilità possano essere suddivise e assegnate. In nessun paese del mondo si è avuta, in coincidenza con la rivalutazione dell’euro, una speculazione immobiliare tanto consistente come da noi. Non c’è stata nessuna capacità di controllare il rapporto tra le banche e il settore dell’edilizia.

D. Lo vediamo qui nella campagna romana, dove si sta gettando un anello di cemento quasi senza soluzioni di continuità ai margini del raccordo anulare. Una città intorno alla città, un secondo sacco di Roma. Sarebbe interessante calcolare il profitto di queste operazioni.
R. E’ il famoso “piano delle certezze” elaborato all’epoca del sindaco Rutelli.

D. Certezze date soprattutto alla speculazione. In questo modello abnorme di sviluppo basato sulla distruzione di un bene non riproducibile come il territorio le maggiori responsabilità sono indubbiamente politiche. Ma certo anche il ruolo delle banche in questa crescita abnorme della rendita è innegabile.
R. Anche per questi motivi occorre rivedere il ruolo del sistema creditizio. Questo, ripeto, mi sembra l’unico punto di attacco che abbiamo per la ripresa della crescita. Certo gli imprenditori rivendicano la riduzione delle tasse e del cuneo fiscale sui salari, ma abbiamo già visto i limiti che si incontrano lungo questa strada.
Questo non esclude, comunque, la possibilità di redistribuire il carico fiscale, ad esempio tassando di più le rendite finanziarie e colpendo i guadagni di capitale. Con molta attenzione perché i capitali non devono essere incentivati a lasciare il paese. Ma i margini per intervenire su questi cespiti, sia pure in termini prudenziali, a mio avviso esistono. Ovviamente distinguendo tra rendite vere e proprie e investimento del risparmio. Ma questo non sarebbe un problema.

D. Si potrebbe pensare a una specie di Invim finanziaria, che colpisca i guadagni di capitale sia in relazione alla loro entità sia in relazione al periodo di tempo nel quale sono maturati?
R. Direi senz’altro di sì, con le cautele di cui parlavo prima. Oltre alle rendite finanziarie, con meccanismi simili si dovrebbero colpire anche le rendite urbane.
Bisognerebbe poi fare una vera lotta all’evasione, anche se questa trova purtroppo tutti gli ostacoli che sappiamo. E poi, dopo i condoni tombali di Tremonti i controlli sono diventati impossibili o inutili.
Tutte queste di cui stiamo parlando sono operazioni che dovremmo fare in quei cinque anni di transizione di cui parlavo prima. Un nuovo governo – un governo che dovrebbe poter durare tutta la legislatura, e che non sia di destra – avrebbe proprio questi due compiti primari, il credito e il fisco.
Dobbiamo ridurre il peso del fisco sulla produzione, ma dobbiamo anche aumentarlo nei settori che pagano poco e su quelli che non pagano affatto. Il centro sinistra deve uscire dal tran tran, proporre un nuovo patto, grande e importante, capace di parlare alla parte migliore delle coscienze degli italiani.

D. Abbiamo parlato molto di banche, forse è il caso di toccare anche un tema sin troppo di attualità, quello della vigilanza sulle banche e del ruolo del “Vigilante”. E’ in discussione il comportamento di Fazio, giudicato da molti come poco conforme al suo dovere di imparzialità. Qual è la tua opinione su queste questioni?
R. In generale penso che la vigilanza sulla concorrenza bancaria dovrebbe essere tolta alla Banca d’Italia per essere trasferita all’Antitrust, rivedendo però parzialmente la normativa. Oltre agli aspetti giuridici, in relazione al sistema bancario questa, a mio avviso, dovrebbe poter tenere conto anche degli aspetti più strettamente economici, nel senso di cui parlavo poco fa. Considerando, cioè, che le banche non sono imprese come le altre.
Quanto a Fazio, sono anch’io tra quelli che ritengono che se ne debba andare. Fazio ha mancato ai suoi doveri di imparzialità e correttezza, mettendo in discussione la credibilità dell’istituzione di cui è a capo. Particolare ancora più eclatante se consideriamo che per anni ha messo in discussione la moralità e la credibilità dei governi. Uno che è venuto meno alla sua deontologia, come fa a controllare la deontologia delle banche a lui sottoposte?
Ma il punto chiave per me è anche un altro. Dopo l’avvento dell’euro Fazio avrebbe potuto fare della Banca centrale non una succursale della BCE ma la vera autorità in materia di vigilanza e antitrust del sistema bancario, e invece ha approfittato dei suoi poteri solo per coinvolgersi in modo partigiano nella cordata dei riders. Un’altra occasione perduta. Anche per questo non può restare dov’è.

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