Perché questo – fa bene a ricordarci Giovanni De Luna – era l’animus e l’intento originario di quel grande e generoso Movimento. Ma il nostro era anche il Paese del doppio Stato, o della continuità dello Stato (fascista) malgrado l’antifascismo, la resistenza e la lotta partigiana; della Guerra Fredda e dell’Atlantismo; di una collocazione strategica delicata e critica nello scacchiere internazionale come Paese cerniera; della presenza attiva del più grande Partito Comunista del mondo occidentale, vissuto dagli uni come segno di speranza e strumento di emancipazione, dagli altri come intollerabile minaccia.
In un quadro così caratterizzato – ci racconta e aiuta a capire De Luna seguendo il filo e la chiave di lettura sopra accennati – ecco prevedibile e inesorabile, in presenza di un movimento di radicale messa in discussione che parte dai giovani nelle scuole per dilagare e incontrare quello delle lotte operaie nelle fabbriche, di là, come risposta, la strategia della tensione, l’uso mirato degli opposti estremismi, il ricorso alla violenza, al delitto politico, alle stragi. Di qua, il recupero e riutilizzo di strumenti, linguaggi e modelli storici ottocenteschi (rapporto avanguardia-masse, figura del politico rivoluzionario di professione, violenza come leva della Storia, antifascismo militante come compimento necessario di un percorso interrotto, partito leninista forgiato nelle lotte e assalto finale allo Stato).
Fu giocoforza passare quindi da una logica di pacifiche e generali pulizie di massa alla radicalizzazione crescente dello scontro e del conflitto: con l’attivazione, di là, di una cabina di regia occulta (Ministero degli Interni, Servizi segreti, Cia, Gladio e manovalanza fascista, ecc.) che inaugurò a Milano, il 12 dicembre del 1969, le sue operazioni con la strage della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, e la successiva incriminazione quali colpevoli degli anarchici e defenestrazione di uno di loro, Giuseppe Pinelli, dal quarto piano della Questura. E con l’attivarsi, di qua, del linguaggio, dei materiali e delle logiche di un rivoluzionarismo ottocentesco: la classe operaia come motore della lotta di classe, il partito come avanguardia organizzata titolare legittimo ed esclusivo dell’esercizio della violenza. Questo violento e dicotomico contrasto si concretizzò e compì tragicamente nella seconda metà dei Settanta e nella prima degli Ottanta con il moltiplicarsi degli agguati e dei delitti, delle stragi, del clima e degli episodi di terrorismo, con il risultato di trasformare la primavera del rinnovamento e risorgimento di massa negli anni di piombo degli intrighi di palazzo e infiniti agguati germinati dal buio della clandestinità.
Giovanni De Luna sottolinea come significativo e in qualche modo emblematicamente riassuntivo l’articolo di Pasolini su Il Corriere della Sera (14 novembre 1974), quello della denuncia dal famoso incipit: Io so. Emblematico perché Pasolini, secondo lo storico, avrebbe dato voce da scrittore e poeta a una percezione tragica: di fronte alla separatezza inconciliabile tra teoria enunciata nelle formule ufficiali e pratica politica effettiva, doppiezza e ipocrisia proprie anche del PCI e della sinistra, non ci si poteva che ritrovare in una condizione di drammatica impotenza. Gli arcana imperii dello Stato erano insindacabili e inviolabili, si sapeva che esistevano, che erano potenti e attivi, che producevano danni ed esiti tragici, ma, insieme, che non si poteva fare nulla per disarticolarli e neutralizzarli – se non appunto facendo la rivoluzione, che però non era per le forze politiche della sinistra tradizionale in agenda. Da qui, e a conferma, il famoso intervento di Enrico Berlinguer che, in seguito al golpe in Cile – 11 settembre 1973 – sostenne che anche raggiungendo il 51% dei voti il PCI non avrebbe potuto governare da solo, perché era inevitabile associare al governo della cosa pubblica anche la DC. Da qui necessaria la strategia del Compromesso Storico – da qui un demoralizzato tirare le somme: moriremo democristiani!
PCI, PSI, sindacati e i loro gruppi dirigenti – così come le organizzazioni extraparlamentari di quegli anni, Lotta Continua innanzitutto, e buona parte della borghesia illuminata e progressista – si rendevano bene conto di questa insanabile contraddizione: ma a pronunciare l’impronunciabile, a dire che le stragi erano di Stato, che Pinelli era stato suicidato, e che la Verità era rivoluzionaria, fu soltanto una minoranza, non sufficiente a mettere in scacco il Leviatano – e la Guerra Fredda, il mondo diviso in blocchi, le diseguaglianze, la proprietà privata, lo sfruttamento e l’alienazione, la divisione della società in classi, l’imperialismo, il colonialismo e gli interessi di molti Paesi sugli sviluppi ed esiti della lotta politica in Italia, ecc. ecc.
Penetrò, si diffuse e alla fine prevalse la convinzione – cui Pasolini con il suo Io so aveva dato corpo concettuale e poetico – che lo Stato poteva uccidere a man salva decine e decine di persone innocenti, nelle banche, sui treni, nelle stazioni e nelle piazze; che gli era permesso dalla titolarità del monopolio della forza e della violenza, del diritto di decidere, per insindacabili ragioni superiori, della vita e della morte di chiunque e di tutti. E che non ne doveva dare spiegazione a nessuno. Che opporsi era generoso e coraggioso, ma del tutto inutile, perché, appunto, contro la forza la ragione non basta. Ecco quindi dilagare demotivazione, demoralizzazione, scoraggiamento, rinuncia. E, perduta l’iniziale innocenza, ecco anche la scelta di gettarsi a corpo morto nella mischia, accettare la logica dello scontro armato, fino a uccidere e a immolarsi. D’altra parte, il Risorgimento e la Resistenza antifascista – e i bolscevichi e i vietnamiti e i cubani – non avevano insegnato esattamente questo? Nel decennio italiano tra il ‘69 e il ’79 il Paese precipitò nel gorgo di un imbuto, in una resa di conti di ideologie, storia e storie, ideali e passioni, concezioni e visioni della società e della vita in cui il peggio e il meglio di tutto e di tutti hanno contribuito a dare uno straordinario, terribile spettacolo.
Nello stesso periodo, mentre nel nostro Paese si consumava tale tragica baraonda, a partire dai Settanta per dispiegare i suoi pieni effetti lungo gli Ottanta, il capitalismo mondiale procedeva inarrestabile nelle sue innovazioni/trasformazioni dell’economia, de modo di produrre e di lavorare, delle sue forme e sedi, del funzionamento del mercato e dei consumi. La fabbrica fordista declina e viene superata (nel 1980 la Fiat licenzia decine di migliaia di operai), l’innovazione tecnologica consente il balzo e l’approdo alla fabbrica molecolare diffusa, alla microproduzione del popolo della partite Iva; il craxismo accresce la sua forza politica perché capace di interpretare e guidare il rinnovamento capitalistico in forma spregiudicata. Risuona perfino, rivolto agli ex compagni del Movimento e alla sinistra, il grido “andate e arricchitevi!” Era Giuliano Ferrara, che capisce in anticipo e prontamente si adegua.
Questo e altro indaga con lucidità e partecipazione, esponendo una grande mole di citazioni, testimonianze e documenti, il libro di Giovanni De Luna. Una importante e necessaria rivisitazione per chi ha partecipato e c’era, e per chi è bene, non avendo potuto partecipare, prenda atto ricavandone lezione opportuna. Perché la verità è sì rivoluzionaria – ma poi subentra la legge del più forte, la logica del bisogna pur vivere, del conformismo e del compromesso. E ai più coraggiosi, agli idealisti e ai puri, tocca arrendersi o soccombere. Come è successo a non pochi, ai quali, specialmente quelli rimasti in ombra perché isolati, il libro rende omaggio.