“Il governo potrà curare una magnifica edizione
delle tragedie di Shakespeare
ma non potrà mai scriverne una”
(Alfred Marshall)
1. La rivoluzione urbanistica e ambientale dell’Emsher Park nella Ruhr
L’IBA Emscher Park è stato progettato e realizzato nel cuore della Ruhr e viene definito da un eminente studioso di pianificazione e rivitalizzazione urbana (Charles Laundry) “one of the most dramatic, innovative, and comprehensively though-through urban regeneration projects”.
L’area dell’Emscher è lunga 70 km, è estesa 800 kilometri quadrati, ha due milioni di abitanti raggruppati in 17 città, è attraversata dal fiume Emscher. Si trova nel cuore della Ruhr, regione con 5.3 milioni di abitanti, una delle aree più industrializzate ed urbanizzate d’Europa, con città come Essen, Dortmund, Buchum, Gelsenkirchen, Duisburg. Un’area sino ad un tempo recente dominata dall’industria pesante, prevalentemente mineraria e metallurgica.
L’eredità della stagione di esasperata industrializzazione era pesante e viene così descritta: estremo degrado, territorio inquinato, montagne di scorie, ciminiere spente svettanti nel cielo, fornaci per lo più spente, torreggianti gasometri, il fiume Emscher diventato una fogna a cielo aperto con i canali di scolo ostruiti o collassati e la puzza che, in certe giornate, era insopportabile; le chiusure delle industrie susseguitesi nell’ultimo decennio del 20° secolo avevano cancellato 600.000 posti di lavoro e la disoccupazione raggiungeva il 13 per cento, mentre il tradizionale dominio delle grandi società (da Krupp a Thyssen) aveva reso difficile lo sviluppo di imprese minori e di una mentalità imprenditoriale.
Nel corso degli anni ’80 importanti risorse pubbliche vennero destinate alla rigenerazione dell’area guidata dall’Internationale Bauausstellung Emscher Park (IBA) , il cui sottotitolo era: A Workshop of the future of Old Industrial Area. L’IBA era un organismo di proprietà del Land ma era fuori dall’amministrazione pubblica. L’IBA Park, guidato dal Prof. Karl Gauser, con una struttura di 30 persone ma con una capacità di mobilitare le risorse della società, ha iniziato la sua attività nel 1989 e dieci anni dopo chiuse la sua attività con un enorme
L’area è ora totalmente cambiata e rigenerata. L’inquinamento divenne occasione per avviare studi e ricerche sul disinquinamento che alla fine degli anni ’90 occupavano 50.000 specialisti; furono creati più di 30,000 posti di lavoro qualificati in attività scientifiche e di ricerca, più di cento progetti privati con l’impiego di 4.500 persone furono lanciati e realizzati; alcune delle antiche strutture industriali sono state trasformate in icone della nuova era (centri di conferenze, auditorium, centri di mostre) e inserite in nuove strutture avveniristiche. Ma soprattutto l’IBA fu capace di guidare l’evoluzione da una cultura di antica industrializzazione ad una cultura post-industriale.
Oggi l’area di Emscher è un’area della nuova economia, piacevolissima, piena di attività proiettate nel futuro, di scienziati, ricercatori, attività culturali, centri di formazione, giovani. E il fiume Emscher, con i suoi canali, non puzza più. Non cerco neanche di approfondire come, in dieci anni, si è potuto realizzare una rivoluzione di questa portata, ma un passaggio non posso ometterlo. Poco tempo fa ho assistito ad una bellissima lezione al Politecnico di Milano di un professore tedesco di urbanistica, tra i protagonisti di questa esemplare vicenda. Inquadrando il tema egli ci ha detto: noi sapevamo che la nuova economia è dominata dalla creatività; sapevamo altresì che non si fa creatività senza i creativi; allora ci siamo domandati che cosa dovevamo fare per attrarre i creativi ed abbiamo incominciato a farlo.
Il denaro pubblico impiegato è stato di circa 1.5 miliardi di euro. Tutto il resto sono stati investimenti di mercato attratti dal valore e dalla potenzialità dei progetti. Certo che quando leggo che eminenti persone pubbliche napoletane dichiarano che per migliorare la situazione a Napoli ci vorranno 50 anni, non posso che augurarmi che si tratti di equivoci giornalistici.
2. Le città americane
Negli anni ’70 e ’80 ho frequentato regolarmente, almeno due volte all’anno, gli Stati Uniti. E’ in quel paese che ho imparato a rendermi conto dell’importanza delle città nel determinare il livello del Paese. Ricordo molte città americane degli anni ’70 come brutte e invivibili. Parlo di New York e di Chicago, ma anche di tante città minori come Filadelfia, Atlanta, St. Louis, Boston; sconvolte dal gigantesco fenomeno (in anticipo di almeno dieci anni rispetto a noi) dell’abbandono graduale delle attività manifatturiere tradizionali senza che ancora fosse percepibile il nuovo che si stava preparando sotto le macerie. Negli anni ’80 ho osservato la rinascita graduale di queste città, frutto dei nuovi sviluppo ma anche di un nuovo impegno culturale e sociale della loro classe dirigente. E’ sulla scorta di queste esperienze positive delle singole città che nasce anche un nuovo importante filone di pensiero sulla gestione pubblica che, negli anni ’90, verrà recepito anche a livello federale, noto come il filone del “Reinventing Government”. Chi ha visto la Chicago cupa e triste degli anni ’70 e la Chicago bellissima e solare degli anni ’90, sa cosa voglia dire la rinascita di una città.
3. Le città europee e italiane
Mi piacerebbe parlare dei recenti sviluppi bellissimi di tante città europee, dopo la crisi delle attività manifatturiere e commerciali tradizionali, da Londra, a Vienna, a Valencia che ho visitato recentemente e dove mi sono reso conto delle ragioni per cui tra la Valencia di oggi (città lanciatissima) e la Napoli di oggi (città imbalsamata) non poteva esserci partita per la Coppa America. Ma il tempo limitato mi costringe a poche riflessioni sulle città italiane. Dobbiamo essere consapevoli che la nostra strada è ancora più lunga ed impervia, perché la distruzione che abbiamo realizzato negli ultimi quarant’anni del patrimonio culturale e paesaggistico delle nostre città è immenso. Era un fenomeno in atto già nel 1956, se Guido Piovene nel suo memorabile “Viaggio in Italia” poteva scrivere:
“L’Italia è sempre una paese confuso, in cui quasi nulla appare con la sua vera faccia. Ma un viaggio per l’Italia ci porta davanti alla società più mobile, più fluida e più distruttrice d’Europa…. In nessun altro paese sarebbe permesso assalire come da noi, deturpare città e campagne secondo gli interessi e i capricci del giorno .Gli italiani non temano di essere poco “futuristi”. Lo sono più degli altri, senza avvedersene; sebbene questo non significhi sempre essere i più avanzati”.
Non mi attarderò a citare gli eventi dei successivi quarant’anni che ci permettono di classificare, oggi, queste parole come profetiche. E’ meglio cogliere i segnali positivi, che esistono e sono diventati sempre più evidenti negli ultimi dieci anni, anche se viviamo ancora in una fase confusa e contraddittoria.
Cogliamo questi segnali positivi dalla riscoperta del valore del paesaggio urbano di città tornate belle, grazie ad una nuova attenzione da parte degli amministratori e dei cittadini; dal ricupero di opere artistiche che stavano per essere perdute ricupero in gran parte realizzato con il sostegno di operatori economici; dalla rivalutazione delle proprie radici e della propria identità da parte di tanti borghi affascinanti. Parlo della cupa Genova degli anni ’70 e ’80, rinata come città bella, colta, vivace, multiforme, turistica, economicamente attiva. Parlo della apparentemente brutta Torino che, messa con le spalle al muro dalla crisi della Fiat, grazie a questa crisi è rinata in modo spettacolare trasformandosi da “company town” a città europea, una bella affascinante e articolata città europea.
Ma parlo anche di Lecce, Salerno, Ragusa, Comiso, tutte città dove si è radicata una politica nuova di valorizzazione della propria storia e del proprio patrimonio storico-culturale e di ricerca di una nuova equazione tra crescita economica e sviluppo civile.
Parlo di Bergamo che ha saputo mantenere un’attività manifatturiera tradizionale molto forte portandola ai vertici della modernizzazione, ed insieme a diventare, in Bergamo Alta, città di cultura europea che, anche grazie ad un aeroporto diventato base di una delle maggiori compagnie aeree “low cost”, attrae, durante tutto l’anno, milioni di visitatori
Parlo di Mantova che da sperduta e isolata cittadina della profonda bassa padana è diventata città ricca avendo saputo trasformare l’agricoltura in industria, ma anche città d’arte, e con i suoi festival letterario e musicale, uno dei punti d’incontro della cultura europea, un vero gioiello giustamente candidato a sito mondiale dell’Unesco (peccato che il suo profilo unico al mondo sia, oggi, sotto attacco da parte di una irresponsabile speculazione autorizzata e sostenuta da una giunta di sinistra, contro la quale combatte una dura battaglia il nuovo sindaco di sinistra, una coraggiosa signora che si batte contro gli affaristi del suo partito).
Parlo di Milano, città ancora in profonda crisi culturale morale e politica, ma che dopo venti anni di imbalsamamento ha finalmente messo in circolo le enormi e preziose aree lasciate libere dall’abbandono delle manifatture tradizionali, sulle quali si sono insediati o stanno per insediarsi cantieri facenti capo ad alcuni dei migliori progettisti mondiali e che saranno uno dei più importanti volani di sviluppo dei prossimi dieci anni e, certamente, modernizzeranno ed abbelliranno la metropoli lombarda.
Emblematico quello che sta succedendo a Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d’Italia. In questa città, uno spazio enorme che taglia in due la città (di oltre 3 milioni di metri quadri) era occupato dalla grande acciaieria Falck, spazio chiuso da una grande muraglia che, per cento anni, inghiottiva ogni mattina la maggioranza dei cittadini attivi di Sesto restituendoli solo a sera (una specie di Bagnoli milanese). Chiusa l’acciaieria a metà degli anni ’90, dopo alcuni anni di incertezze, ora su quest’area, l’architetto Piano, uno dei più geniali e civili architetti del mondo, sta progettando una nuova città, bella, leggera, aerea, caratterizzata da edifici alti eretti su alte palafitte che lasciano spazio, a livello strada, ad ampie passeggiate caratterizzate da verde, gallerie e negozi. Una specie di risarcimento della bellezza per i cento anni di fumi e di magli a favore dei cittadini di Sesto (che rimangono peraltro legati ai luoghi di tante fatiche, che verranno, in parte, conservati come ruderi industriali, testimonianza di una epoca eroica) ed, al contempo, specchio della nuova città, delle nuove attività che sono di industria della conoscenza, di telecomunicazioni, di commercio, di servizi avanzati, di artigianato sofisticato, di software.
Anche qui vi è un piano regolatore espressione della cultura piccolo borghese e stalinista degli architetti comunali di sinistra. Ma la forza del progetto del grande architetto, unita al fatto che il terreno è qui, per fortuna, privato (anziché come a Bagnoli, pubblico) permette di essere fiduciosi che in un decennio la nuova Sesto sarà completata.
4. I punti chiave
E’ solo partendo dalle esperienze concrete che si possono sviluppare riflessioni generali per tentare caute teorizzazioni. Schizzerò quattro punti chiave: il patrimonio storico–culturale e la bellezza del paesaggio urbano come fattore di sviluppo; la città rete; la città creativa; fare leva sulla città.
Il patrimonio storico–culturale e la bellezza del paesaggio urbano come fattore di sviluppo
E’ sempre più chiaro che la valorizzazione del patrimonio storico – culturale delle città e la bellezza del paesaggio urbano non sono in contrasto con lo sviluppo economico ma ne sono un ingrediente. Mettete da una lato Siena, Bergamo, Mantova, Salisburgo, Vienna ma anche Genova dove una provvidenziale decisione comunale dei primi anni ’80 ha impedito ogni nuova costruzione sulle colline, e dall’altra mettete Gela, Palermo, Alcamo Marina, Agrigento. Quali di questi gruppi di città hanno avuto il maggiore e migliore sviluppo? Anche nel primo gruppo di città si è costruito ma, insieme, si è edificato; nelle seconde si è forse costruito di più, ma si è solo costruito (nel termine edificare vi è la radice di aedes, dimora, che indica qualcosa di accogliente, di gradito, che “induce al bene” da cui “edificante”). Il patrimonio storico–culturale è identità e ricerca e valorizzazione del proprio saper fare. La bellezza del paesaggio urbano è specchio dei rapporti sociali ed economici. Non può esserci buona vita sociale ed economica nella Gela nuova.
Questa visione è sostenuta soprattutto da un filone di pensiero francese oggi rappresentato da Hugues de Varine, teorico e pratico dello sviluppo locale e del ruolo centrale nello stesso del patrimonio storico–culturale delle città. Il suo ultimo libro, tradotto in italiano, è significativamente intitolato: “Le radici del futuro” (Le racines du futur – in edizione italiana 2005 Clueb, Bologna). Non esiste futuro senza radici. Come non esiste futuro buono senza bellezza. La Piazza del Campo a Siena non nasce per caso ma come visione concreta di cosa è una città e di cosa è il buon governo. Non è un accidente; è una consapevole scelta.
La città rete
Un secondo importante filone di pensiero sviluppatosi negli ultimi anni è la visione della città rete. Lo sviluppo e la collocazione di una città non si misura più secondo la sua grandezza o secondo una gerarchia di appartenenza territoriale, ma secondo la sua capacità di essere inserita in una molteplicità di reti internazionali. Bergamo è una città piccola ma poderosamente inserita nella rete internazionale delle attività manifatturiere e, più recentemente, nella rete dei milioni di cittadini europei che amano passeggiare nelle strette vie medioevali, mangiar bene in piazza Colleoni ed il tutto per poche decine di euro grazie ai voli “low cost”. La visione di Milano, punto centrale con le sue più o meno lontane periferie da assistere in qualche modo, è totalmente obsoleta. Oggi si parla di “Polycentric Metropolis” (Peter Hall and Kathy Pain, Earthscan Londra, 2006) secondo la terminologia usata da una grande ricerca sostenuta dall’Unione Europea.
E’ su questo filone che si sta muovendo il Professor Balducci, direttore del dipartimento di urbanistica di Milano, che sta conducendo un’affascinante e importante studio sulla Lombardia milanese, definita come “Città di Città”. Non più centro e periferia. La realtà evidenzia singole città ciascuna dotata di una propria identità; di una propria storia; di proprie caratteristiche e specializzazioni inserite in reti locali o internazionali che si intrecciano tra loro in un processo di specializzazione e di mutuo arricchimento.
Sesto San Giovanni non è mai stata e non vuole diventare periferia o dormitorio di Milano. Se il progetto Piano si realizza, la nuova Sesto diventerà anzi una perla dell’area milanese, un arricchimento della “Città di città”. Credo che questa linea di pensiero e questo approccio siano molto adatti anche alla Campania. Ho letto in una relazione di uno dei più noti amministratori pubblici campani che in Campania Napoli è tutto e tutto vive di riflesso di Napoli. Con tutto il rispetto, si tratta di una pericolosa sciocchezza.
La città creativa
Vi è un terzo filone di pensiero, ancora più recente, che non contraddice la teoria della città rete (la cui rappresentante principale resta la Sassen) ma la integra e la arricchisce. E’ il filone di pensiero sulla città creativa il cui testo più importante è quello di Charles Laundry, The Creative City, a Toolkit for Urban Innovators (Earthscan Publication Ltd, prima edizione 2000, poi ripubblicato ogni anno). Questo pensiero parte dalla osservazione che il 21° secolo sarà, come non mai, “il secolo delle città”. Per la prima volta nella storia umana più della maggioranza delle persone vivrà in città, mentre venti anni fa solo la percentuale era solo del 29 per cento. Già oggi, in Europa, il 75 per cento della popolazione vive in città. Tuttavia la maggioranza degli abitanti non è felice di vivere in città nel modo in cui vive attualmente (l’unica eccezione a me nota è Vienna dove un’indagine di alcuni anni fa evidenziava che, oltre il 95% dei viennesi era felice di vivere a Vienna, una percentuale straordinaria).
Un’indagine inglese del 1997 evidenziava, invece, che l’84% dei cittadini avrebbero voluto vivere in piccoli villaggi, mentre solo il 4 per cento viveva effettivamente in un villaggio. Scrive Charles Laundry: “Noi non possiamo creare un numero sufficiente di villaggi per soddisfare queste aspirazioni. Ma possiamo invece agire per rendere le nostre città un luogo dove sia desiderabile vivere”. Per questo ci vuole pensiero ed azione.
Per questo ci vuole la “Creative City” dove amministratori e cittadini affrontino e risolvano i problemi e le prospettive in modo creativo. Vi sono ormai numerose città nei posti più diversi del mondo (da Barcellona a Bangalore, dal cluster lungo il fiume Emscher nella Ruhr a Sidney) che hanno imparato a cavalcare e guidare i cambiamenti e gli sviluppi della vita socio-economica. Ma la maggioranza “sembrano vittime passive del cambiamento, semplicemente accettando che esso avvenga”.
Riscoprire la creatività urbana è un compito complesso e non facile ma molti esempi stanno a dimostrare che è possibile. Imparare da questi esempi e dalla buona teoria sviluppata sugli stessi è necessario e utile.
Fare leva sulla città
Negli anni ’80 fu chiesto al sindaco di una media città americana che l’aveva guidata da una crisi profondissima negli anni ’70 ad una vera e propria rinascita economica e sociale, quale era stato l’ingrediente principale di questa rinascita, su quali risorse aveva potuto contare. La sua risposta, semplice ed efficace, mi ha sempre colpito: ho fatto leva sulla città (“Have leveraged the city”). E’ nella città che ci sono le risorse intellettuali, professionali, imprenditoriali, finanziarie, necessarie per lo sviluppo, per affrontare i cambiamenti, per disegnare il nuovo volto della città.
Il politico vero e l’amministratore accorto non cerca di succhiare tali risorse per fare poi lui stesso le cose che i cittadini possono fare meglio, ma cerca di suscitare, esaltare, guidare queste energie. Egli cerca di elaborare la rotta comune e di far crescere il consenso sulla stessa; egli può battere il tempo. Ma poi solo se tutti e ognuno al proprio posto remano con ordine e convinzione la città va avanti.
Non si crea sviluppo economico senza gli imprenditori, agenti primi dello sviluppo economico; non si edifica senza i costruttori; non si fa il nuovo stadio senza finanza privata e questa non si muove se lo studio non viene concepito come il centro di un progetto più complesso; non si abbellisce il panorama urbano senza la partecipazione dei cittadini; non si migliora la vita civile senza coinvolgere le persone di cultura; non si utilizzano in modo intelligente al servizio della città le nuove aree urbane liberate dal cambiamento delle attività, senza coinvolgere i grandi architetti ed urbanisti e i grandi finanziatori affidandole solo agli uffici comunali o agli architetti di partito o alle vuote casse pubbliche; non si ripensa la città senza pensiero.
Non è questione di destra o di sinistra ma di cultura dello sviluppo e di comprensione dei tempi. In Sicilia domina lo stalinismo di destra, in Campania domina lo stalinismo di sinistra. Entrambi sono inadeguati a comprendere e schiudere i tempi nuovi.