Stefano ha 43 anni, lavora nelle cucine di un famoso Hotel della Capitale e ama andare in palestra. Non è famoso e non ha interesse a diventarlo. Ha perso il padre da giovane e la sua vita non è stata sempre facile ma mette il cuore in tutto ciò che fa, nel lavoro e nei suoi hobby. E quando è a casa, semplicemente sogna. Sogna luoghi irraggiungibili, architetture impossibili, città di carta che prendono vita sotto i tratti della sua matita per poi venire ripassati al pennarello, in uno sforzo doppio, di creazione prima e di rilettura del segno, poi.
Ed è proprio dall’accumulo di tanti fogli visionari nel cassetto di un autodidatta che nasce “Città di carta”, il titolo della sua personale, allestita per un giorno, domenica 16 ottobre, presso lo S.T.A.P. STUDIO Via Marino Dalmonte 149 a Cesano, alle porte di Roma.
Siamo andati a visitare la rassegna, incuriositi dall’anteprima delle opere e invitati dalla curatrice Marjan Fahimi, pittrice emergente e in rapida via d’affermazione, il cui valore artistico avevamo avuto già modo di apprezzare in passato.
Siamo stati accolti con il suo abituale sorriso e, invitandoci ad entrare, ci ha svelato che l’intento da cui ha preso le mosse l’iniziativa di ospitare altri artisti nel suo studio “è quella di creare un punto di riferimento artistico, anche se piccolo, per la periferia nord della Capitale”. Ha aggiunto inoltre “che poterlo fare non è semplice e che per lanciare quest’idea sta puntando sull’aiuto dei suoi amici e in particolare degli artisti della zona”.
E’ un progetto che ci piace quello di Marjan, che premia il merito e valorizza zone in cui la cultura ha più difficoltà ad entrare, perché più residenziali o magari perché più lontane dal centro e dalla calca.
Tra le pareti dello studio della Fahimi, le creazioni su carta di Stefano, frutto di ore di impegno e di diversi anni di produzione, mostrano il loro percorso di crescita. Da una prima raccolta che si caratterizza con opere più piatte e bidimensionali, si approda in fretta ad un secondo gruppo di disegni in cui spicca una netta crescita nel padroneggiamento della prospettiva e un interesse sempre maggiore per la tridimensionalità.
E’ evidente, aggirandosi tra i grafismi dell’artista, che l’arte per lui ha il sapore di una fuga e insieme rappresenta un modo per meditare, ritrovare concentrazione, rilassarsi dopo una giornata pesante, distrarre la testa da pensieri non sempre chiari, a volte accavallati. Linee come onde cerebrali, insomma…
Guglie, finestre piccolissime, archi a tutto sesto e porticine aperte su un altrove che non si sa dove sia, prendono vita con lo scorrere della mano di Stefano sui fogli.
I tetti diventano insieme il piano terra di una nuova costruzione e il bianco e nero è imperante, rotto solo a tratti, in alcuni disegni, da colori accesi che non conoscono sfumati o chiaroscuri. “O tutto o niente, o tanto o poco”, sembra dirci l’artista, nutrendo le sue opere di questi contrasti.
Sono oniriche le sue costruzioni ma plasmate da un pragmatismo che si richiama saldamente alla geometria e alla prospettiva scientifica, che l’artista chiama in causa aderendo alle regole per sovvertirle al tempo stesso.
Blocchi di edifici si sovrappongono così, pericolosamente, reggendo in modo inaspettato in questo aggancio che li serra gli uni agli altri.
Minareti e costruzioni orientaleggianti sono immersi e fagocitati in imponenti grattacieli perdendo i loro contorni statuari nel richiamo delle linee alle strutture di cemento armato che ancorano al grigiore intere città reali e che qui, invece, sembrano diventare ordinati grovigli d’impossibile.
Tutto è città e le strade, le prospettive, i panorami, non esistono perché sono inglobate dall’impulso urbanizzante della carta.
L’opera più straordinaria è senza dubbio un rotolo di edifici ordinatamente ingarbugliati su cui campeggia, sul fondo dei suoi ben 10,20 metri lineari, la Tour Eiffel: una ciliegina riconoscibilissima e schematica su una torta di edifici caleidoscopici e intricatissimi.
Guardiamo l’opera di questa sorta di novello Escher, scrutando la minuziosa stesura dei particolari che formano un sottoinsieme di storie e di figure: città impossibili dentro la città di carta.
Percorrendo i metri del disegno insieme al suo creatore, scorgiamo un sorriso sorpreso e compiaciuto negli occhi dell’artista.
Stefano ci rivela allora che quel rotolo di piccolissimi grafismi lo sta guardando egli stesso per la prima volta perché lo ha realizzato srotolando la carta a poco a poco , seduto per ore in solitudine al suo tavolo da pranzo e ne ha visto crescere, sotto le proprie mani, solo una piccola porzione alla volta, senza mai avere avuto modo o la curiosità di ammirarlo tutto intero.
Rimaniamo esterrefatti… un’opera così monumentale e certosina, compiuta senza prevederne l’interezza… Ma Stefano non mostra di avere la consapevolezza della genialità di quest’impresa ed in fondo è proprio in questo la sua cifra artistica: una modestia illuminata dall’impegno e dall’estro creativo, ordinato e sregolato al tempo stesso in un autodidatta dai richiami escheriani che, grazie all’impegno di Marjan Fahimi, siamo riusciti a conoscere anche noi.