Spesso il suo nome si accompagnava alla precisazione “l’attore, non il cantante”, perché per noi italiani differenziare tra Robin e Robbie non è mai stato immediato. Per me si chiamava Mork e su un uovo veniva da Ork. Nano nano la tua mano, nano nano apri piano e poi via ad imitare il saluto alieno, aprendo la mano e sforbiciando; c’era il collegamento con Orson per parlare degli umani, momento che scandiva la fine di ogni puntata e poi beveva col dito, perché se si beve con la bocca, come si fa a parlare e bere senza sbrodolarsi?
Abbiamo cantato la sigla e abbiamo riproposto la sua gestualità in qualche ricreazione scolastica, magari discutendo con l’amichetto delle elementari su chi imitava meglio il nano nano con le mani.
Qualche anno dopo abbiamo tifato per il professor Keating, che aveva svegliato quegli allievi dal torpore della rigida tradizione. Li ha e ci ha appassionati facendo strappare in classe le pagine dell’introduzione del libro di letteratura, perché le teorie del professor Pritchard pretendevano di incardinare la comprensione della poesia in un grafico o diventando oggetto di imitazione per i ragazzi con “la Setta dei Poeti Estinti”.
Abbiamo desiderato un professore per cui salire sui banchi, sfidando anche un contrariato preside ed oggi magari qualcuno di noi è professore e desidera qualche allievo, invasato sui banchi per lui.
Robin Williams è un ricordo per noi bambini e ragazzi degli anni ’80. Ho incollato i miei occhi davanti a Mork e Mindy, in quel televisore così profondo, che tre quarti della sala erano occupati dal tridimensionalissimo elettrodomestico e lo spazio minimo rimasto lo usavo io per godermi il simpatico alieno, anche se mia madre mi tormentava con le sue distanze di sicurezza, quelle raccomandate dalla italiana scienza mammona e che se avessi dovuto rispettare, avrei dovuto farmi bidimensionale e spalmarmi sulla carta da parati alle mie spalle.
Negli anni credo di aver consumato il VHS dell’ “Attimo fuggente”, specialmente in quelle giornate grigie dei primi di settembre, che ti avvisavano dell’inizio di un nuovo anno scolastico; era come se mi ambientasse all’ annata di reclusione, per le canoniche cinque ore al giorno. Ho conosciuto il “Carpe diem” tramite il film di Peter Weir, tanto che fino al liceo pensavo fosse di Keating e non di Orazio. È stato sorriso e commozione e da oggi è anche un poeta estinto.
Leonardo Masucci