Situazione fuori controllo nell’est russofono. Accordi di pace disattesi da tutti. Scontri con morti e feriti nelle città occupate dai ribelli mentre Usa e Russia si minacciano a vicenda attribuendosi le responsabilità. Ma le sanzioni rischiano di far male soprattutto all’Europa.
Non può saltare ciò che non è mai stato in piedi. Che vi sia stato un vertice per la pace in Ucraina, il 17 aprile a Ginevra, non se n’è accorto nessuno, e da giorni nell’est russofono del Paese la situazione appare sempre più vicina al punto di non ritorno.
Sono già un lontano ricordo i patti siglati in Svizzera tra le parti in causa: Stati Uniti, Russia, Ucraina e Unione Europea. Accordi mai rispettati né ad est né ad ovest del Paese che prevedevano il disarmo delle milizie radicali e la cessazione delle occupazioni di edifici pubblici, piazze e strade. Se infatti i gruppi “di autodifesa” filorussi non hanno disarmato e hanno proseguito nelle occupazioni, altrettanto hanno fatto i gruppi radicali ultranazionalisti dell’ovest filoccidentale. Su tutti Pravi Sector, la frangia più oltranzista del nazionalismo ucraino, di fatto divenuta un gruppo paramilitare.
Con un particolare in più, però. Che risponde al nome di Dmitry Yarosh, il leader del movimento dichiaratamente di estrema destra. Yarosh, che ha definito i russofoni ucraini “infezione del Cremlino” e vuole “derussificare il Paese” è candidato alle elezioni presidenziali del prossimo 25 maggio. Potrebbe diventare presidente di tutti gli ucraini. Auguri.
Nel frattempo è stato deciso di spostare il quartier generale del movimento da Kiev a Dnipropetrovsk, nel cuore dell’oriente ribelle, e di formare la “brigata Donbass”, dal nome della regione ora in fermento a stragrande maggioranza russofona, “composta da circa 800 combattenti patrioti per l’Ucraina”. Tutto un programma.
Tra offensive di Kiev e controffensive russe ai confini, scontri con morti e feriti tra Sloviansk e Kramatorsk, dove un elicottero di Kiev è stato dato alle fiamme, e osservatori Osce rapiti, prosegue lo scontro dialettico tra Washington e Mosca, vere parti in causa del conflitto.
Gli Usa minacciano sanzioni sempre più severe che l’Europa prega di non dover applicare sul serio. Gli inglesi di British Petroleum possiedono il 20% di Rosneft, colosso petrolifero russo. Chiudendo o limitando le importazioni la Bp danneggerebbe se stessa forse in maniera irreparabile. Già si sta diffondendo il panico nella city di Londra, poi, all’idea che gli oligarchi russi, molti dei quali vicini al Cremlino, decidano di portare via i propri immensi capitali.
Per non parlare di Francia e Germania: la prima ha in piedi commesse militari con la Russia per 1,2 miliardi di euro e la seconda dipende dal gas di Mosca per oltre il 30% del proprio fabbisogno, senza dimenticare gli 80 miliardi circa di fatturato di tutte le aziende teutoniche che operano in Russia e che stanno facendo opera di mediazione diplomatica abbastanza interessata. La pace deve trionfare.
E l’Italia? Il nostro Paese è legato a doppio filo sia alla Russia che all’Ucraina. Solo nel 2013 il 43% del gas consumato nel nostro Paese è arrivato da Tarvisio, dove giungono le pipeline che trasportano il gas di Mosca attraverso Kiev e proprio nella “terra di confine” lavorano più di 500 imprese italiane. Sarebbe bene iniziare a tutelare i nostri interessi.
A ben vedere, l’unica cosa che nessuno vuole è mollare la presa sull’Ucraina, paese culturalmente diviso e perciò facile da destabilizzare, nonché crocevia d’interessi economici e geopolitici giganteschi per i quali Russia e Stati Uniti si fronteggiano per interposta persona. Ovvero quell’Europa non pervenuta né a Ginevra, né prima, né dopo e il nuovo governo ucraino evidentemente sotto tutela americana. Meri spettatori interessati.
Marco Bombagi