Il dramma artistico e umano del pittore olandese nel nuovo romanzo di Carlo Ferrucci
A Auvers-sur-Oise, trenta chilometri a nord ovest di Parigi, si consuma nell’estate del 1890 l’ultimo atto della tragica vita di Vincent Van Gogh. Nei due mesi precedenti Van Gogh dipinge alcune delle sue tele più famose e frequenta assiduamente la famiglia del dottor Gachet, alle cui cure è stato affidato da suo fratello Theo.
Dopo la morte del pittore, e col crescere della sua fama, Margherita Gachet non dirà né scriverà mai una sola parola su di lui, a differenza di quanto faranno suo padre e suo fratello Paul. Si nasconde forse qualcosa dietro a questo silenzio? Cosa potrebbe avere compreso la giovane pianista riguardo ai segreti della pittura di questo straordinario artista e alle ragioni del suo suicidio?
La pianista di Van Gogh è il diario immaginario tenuto da Margherita in quei giorni, una testimonianza unica, vivace e raffinata, della fase conclusiva della vita del grande pittore olandese.
Poeta, saggista, drammaturgo e traduttore, Carlo Ferrucci (Roma 1947) ha insegnato Storia dell’Estetica all’Università di Roma “Tor Vergata”, concentrando in particolare le sue ricerche, le sue pubblicazioni scientifiche e la sua attività didattica sulla psicoanalisi dell’arte, il pensiero poetante di Giacomo Leopardi, l’estetica di Maria Zambrano e la filosofia del teatro. Come romanziere, ha pubblicato La mina tedesca. Il vero romanzo di Giaime Pintor (Tra le righe libri, 2015).
Proponiamo di seguito un estratto del romanzo storico La pianista di Van Gogh di Carlo Ferrucci (Rogas edizioni).
Auvers, domenica 29 giugno 1890
Stamattina niente musica, mentre il signor Van Gogh terminava il mio ritratto: solo conversazione. E a bassa voce, anche, come se avessimo tacitamente convenuto di non farci sentire dal babbo, che dopo avere accolto il nostro ospite con una cortesia perfino esagerata e avergli prestato la propria tavolozza – il signor Van Gogh aveva dimenticato la sua alla locanda – si era seduto in anticamera a leggere il giornale.
In casa, oltre al signor Van Gogh e a me, c’era solo lui. La signora Chevalier aveva chiesto e ottenuto di potersi fermare da suo fratello tutto il giorno, «per non dover mandar giù altri affronti al povero dottore», aveva detto. E Paul era sceso al fiume con i suoi amici per assistere alla gara di velocità tra la squadra dei canottieri di Auvers e quella di Champolon, che si affrontano tutti gli anni il giorno di San Pietro e Paolo.
«Dove eravamo rimasti, con la nostra chiacchierata?». Pronunciando queste parole nello stesso momento in cui riprendeva in mano il pennello, il signor Van Gogh mi ha fatto subito capire di aver bisogno che le due cose da lui portate avanti insieme ieri, il racconto delle sue «peripezie» e il mio ritratto, procedessero di pari passo anche oggi. Di nuovo a garanzia del «ritmo» del suo lavoro, immagino, e senza tenere in alcun conto le osservazioni del babbo.
«Eravamo rimasti al suo… ricovero in un ospedale psichiatrico, mi sembra».
«Ah, certo, brava. Un ricovero che io stesso ho voluto, vi dicevo, nel maggio dell’anno scorso. Beh, forse ora vi domanderete il perché di questa decisione, visto che non capita spesso che sia lo stesso matto a chiedere di essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico, o manicomio che dir si voglia… o forse non vi interessa?»
«No, no, mi interessa, raccontate pure». In realtà, oltre a ripetermi che se volevo aiutarlo dovevo essere pronta ad ascoltare qualsiasi cosa lui sentisse il bisogno di dirmi, mi sentivo come cullata dalla sua voce rauca, che mi sembrava di udire per la prima volta; mentre il suo sguardo, che passava con rapidità da me alla tela e dalla tela a me, non mi era mai apparso così concentrato, intenso, quasi ipnotico.
«Bene, il perché è presto detto. Nei mesi precedenti, ad Arles, avevo avuto diversi attacchi di panico assoluto, totale, provocati, oltre che dall’epilessia di cui soffro, dalla terribile solitudine in cui mi aveva lasciato la partenza di Paul Gauguin, dall’ostilità di quasi tutti i miei vicini, da un’alimentazione disastrosa e… sì, certo, anche dall’abuso di vino e di assenzio. Così, avendo sentito parlare bene della casa di cura, come la chiamano, di Saint-Paul de Mausole, ho chiesto a mio fratello di presentare a nome mio la domanda ufficiale di ammissione. In terza classe, la più economica, però con diritto a mezzo litro di vino a pasto, e il permesso speciale di dipingere fuori della clinica». Sembrava che quasi si vergognasse, di essere stato un privilegiato tra quegli infelici. «Ma dopo un anno, più che guarire della mia malattia mi stavo ammalando di quelle degli altri».
«Paul Gauguin, avete detto? Quello della lettera di ieri, che vi ha chiuso la porta in faccia?». Di fronte alla possibilità che mi rivelasse particolari scabrosi della sua vita da ricoverato, il mio istinto di difesa si era ridestato, e ora mi consigliava di mantenere il più possibile il discorso su un piano diverso, più “normale”. O che, almeno, si presentasse come tale.
«Quello della lettera di ieri e della porta in faccia, esattamente. E del taglio al mio orecchio».
«Del taglio al vostro orecchio?». Mi ricordavo perfettamente che una settimana prima aveva raccontato a Paul, presente il babbo, di esserselo tagliato lui stesso. Che c’entrava perciò adesso Gauguin?
«Non vorrete farmi credere che con vostro fratello, o magari con vostro padre, non avete parlato del mio orecchio!»
«No… cioè, sì, un po’». Avrei voluto sprofondare.
«Beh, è successo la sera dell’antivigilia di Natale di due anni fa, un paio di mesi dopo che Gauguin mi aveva raggiunto ad Arles. Eravamo stati bene insieme, in quelle settimane, lavorando molto e parlando di come pensavamo di sviluppare a modo nostro le scoperte dell’impressionismo, lui appoggiandosi di più alla fantasia, come vi dicevo ieri, io allo studio della natura… lui, però, doveva essersi stancato di me, dei miei salti di umore, credo, o si era convinto che non avessimo più niente da dirci. Fatto sta che mi aveva fatto capire che se ne sarebbe andato. Quella sera, poi, ci eravamo ubriacati, io più di lui, avevamo litigato, e a un tratto l’ho aggredito con un rasoio. Non sopportavo che ripartisse, volevo ferirlo nel corpo come lui stava ferendo me nell’animo, nel mio estremo bisogno della sua compagnia… solo che all’ultimo momento, invece di colpire lui, ho rivolto la lama contro il mio povero orecchio, lasciandolo come ora lo vedete». Detto con un leggero movimento del capo verso di me, questo, e con un accenno di sorriso, per sdrammatizzare. «La storia, in realtà, è un po’ più lunga, ma per oggi credo di avere già abusato della vostra pazienza. Magari il resto ve lo racconterò un’altra volta».
«Volete dire che mi farete un altro ritratto, dopo questo?». Mi sarei morsa la lingua, dato che non amo apparire vanitosa. Evidentemente, però, oltre a essere meno forte di quanto pensassi, visto che cambiavo discorso ogni volta che toccavamo temi delicati, non accettavo l’idea che il signor Van Gogh possa dipingermi meno di Adeline (che di ritratti alla fine sembra ne abbia collezionati ben tre).
«Perché, solo quando vi faccio un ritratto, possiamo parlare?». La risposta era insieme logica e abile, e i suoi occhi verdi, tristi fino a un mo-mento prima, avevano ragione di ridere. «Forse, adesso che sapete che sono stato in manicomio, anzi, pardon, in una casa di cura per malati di nervi, avrete più paura di venirmi a trovare mentre dipingo all’aperto, come già avete fatto una volta, con la signorina Adeline?»
«No, che dite, con Adeline…»
«E senza Adeline? Lei ci viene anche da sola».
«Ma è perché deve portarvi da mangiare».
«Ebbene, portatemi da mangiare anche voi!». Era tutto il suo viso, ora, che sorrideva, e di un sorriso insolitamente chiaro, aperto. «Forse che vostro padre non insiste a dire che mangio troppo poco?»
Che altro potevo fare, a quel punto, se non sorridere anch’io? Di simpatia, nelle mie intenzioni; a giudicare però da quello che il signor Van Gogh ha aggiunto subito dopo, sul mio viso deve essersi dipinto soprattutto imbarazzo.
«Perdonatemi», ha detto. «Non intendevo mettervi a disagio. So che siete una ragazza giudiziosa, oltre che una brava pianista, e che vi comporterete sempre con la massima saggezza. E scusatemi anche per avervi parlato del manicomio, con tutto quello che è seguito… all’inizio, ieri, vi ricordate?, era stato solo per spiegarvi perché non voglio saperne di tornare in Olanda, dove troppo del mio passato viene giudicato una vergogna, e perché ormai considero quella di mio fratello come la mia sola famiglia».
«Sì, certo che me lo ricordo. Il signor Theo e la signora Johanna sono davvero simpatici. E il vostro nipotino è anche il vostro figlioccio, vero?». Per quanti sorrisi e complimenti ci scambiassimo tra una rivelazione e l’altra, il mio istinto di difesa, temendo nuove sorprese, mi portava regolarmente ad aggrapparmi agli aspetti più innocenti della sua vita.
«Sì, e infatti gli hanno dato il mio nome, Vincent Willem. Mio fratello e mia cognata ci tenevano, e a me la cosa poteva fare solo piacere, è evidente. Ma al marmocchietto, al mio Vincent Willem Terzo, come lo chiamo io, avrei voluto bene anche senza essere il suo padrino, ci mancherebbe altro!»
«Terzo?»
«Sì… ve l’ho detto, no?, ieri, che prima di me i miei avevano avuto un figlioletto nato morto un anno esatto prima che arrivassi io, e al quale avevano messo lo stesso nome che poi avrebbero dato a me».
«Ah sì, certo, scusate».
«Non vi dovete scusare, sono cose che si vorrebbe subito dimenticare, ci sono passato anch’io. Mi ricordo che da bambino, mentre andando in chiesa passavo davanti alla tomba di quel fratellino mancato, la coincidenza delle date della sua morte e della mia nascita mi stringeva il cuore; e che quando più tardi ho cominciato ad avere i miei attacchi di nervi, i miei deliri, l’immagine del suo cadaverino che mi tendeva le braccia per attirarmi sottoterra e farmi sdraiare accanto a sé, in un buio soffocante, poteva perseguitarmi per giornate intere».
Eccomi di nuovo servita…