di Marica Mancini
Nuovo appuntamento con la nostra guida all’ascolto. Oggi parliamo dell’opera di Gaetano Donizetti Maria Stuarda in scena al Teatro Costanzi (Teatro dell’Opera di Roma) da stasera e fino al 4 aprile prossimo.
“…su’ prati appare odorosetta e bella la famiglia de’ fiori… a me sorride, e il zeffiro, che torna da’ lieti lidi di Francia, ch’io gioisca mi dice come alla prima gioventù felice”.
La prima assoluta di Maria Stuarda fu alla Scala di Milano il 30 dicembre 1835. La genesi dell’opera è caratterizzata da infelici episodi tra i quali il litigio snervato delle femmes che rappresentarono per prime Maria ed Elisabetta. L’acceso diverbio sopranile costò più volte la censura fino a quando Donizetti decise di diversificare caratterialmente i due personaggi femminili. L’una vivrà sempre assalita da confusi «moti di pietà» che nutriranno la repressa vendetta, l’altra vivrà «gemente» e «dolente» nel bosco di Forteringa nel turbinio di pensieri peccaminosi che la condurranno al patibolo.
L’opera in tre atti si apre con un’azione già data: Maria è in carcere. L’approfondimento storico ci spiega subito per quale ragione e definisce le personalità contrastanti delle due regine. Elisabetta, regina d’Inghilterra, figlia di re Enrico VIII e Anna Bolena, eredita un Paese in cui esistono forti tensioni religiose determinate dalla sorellastra Maria Tudor che vuole ricondurre l’Inghilterra sotto la Chiesa cattolica. Elisabetta invece è anticattolica per nascita poiché nata da un matrimonio ritenuto illegittimo. Molti esponenti della nobiltà europea, compreso il cattolico Filippo II, la chiedono in sposa ma lei si nega sempre tanto da aggiudicarsi l’appellativo di “regina vergine”.
Maria Stuart, regina di Scozia, figlia di Giacomo V e Maria di Lorena, mandata in Francia per evitare il fidanzamento con Edoardo d’Inghilterra voluto da Enrico VIII, sposa invece Francesco II. Proclamato il protestantesimo, Maria decide comunque di professare una personale fede cattolica, ma la situazione precipita quando, a seguito della morte del primo marito, si rifiuta di sposare il protestante Conte di Leicester, proposto da Elisabetta (nell’opera amato da entrambe le regine) per unirsi in matrimonio con Enrico Darnley, capo dei cattolici scozzesi. Dopo varie relazioni extraconiugali, ripetutamente sconfitta dai nobili, cerca rifugio presso Elisabetta che firma il decreto condannandola alla scure nel 1587.
Nell’opera Roberto Leicester ubbidisce alla volontà di Elisabetta, ma subito Talbot riesce a cangiar «il bel sembiante adorato» nel ricordo di un amore «vagheggiato». Ecco ritornare la rima baciata a piegare la possente virilità del Conte, il quale decide di sfidare invano ogni periglio.
Elisabetta giunge a Forteringa con Leicester ed il tesoriere Cecil per vedere Maria. Il confronto fra le due affonda il dito nella piaga del marito ucciso ed infanga il nome della «disonorata» madre Bolena. È questa la scena vietata dalla censura che venne comunque cantata dalla Malibran nelle prime esecuzioni milanesi, in cui si accavallano torbidi i termini dell’injuria.
L’«oltraggiata» Elisabetta proclama con impeto il suo verdetto: «Ho risoluto… mora». Sul fondale appare una scala discendente con due guardie che attendono di giustiziare Maria.