Un uovo al centro del palcoscenico. Dietro di esso, un attore dà vita a emozioni fanciullesche e narrazioni al tempo stesso grigie e coloratissime. Questa è la particolare cornice che caratterizza “La vita davanti a sé”, monologo intenso e passionale interpretato e diretto da un magistrale Silvio Orlando, in scena al Teatro Quirino dal 18 al 30 ottobre.
L’arduo compito del celebre attore partenopeo è quello di traghettare lo spettatore nella Parigi di mezzo secolo fa, nel quartiere popolare e multietnico di Belleville. Orlando racconta la storia calandosi nei panni di Momò, un bambino arabo di dieci anni che trascorre la sua infanzia in una realtà difficile: una sorta di strampalata casa famiglia gestita da Madame Rosa, donnona ebrea reduce di Auschwitz. Ormai anziana e malata, accudisce da anni “alla meno peggio” i frutti di gravidanze indesiderate delle sue ex colleghe prostitute, al sesto piano di un vecchio palazzo abitato da personaggi molto bizzarri.
Questo edificio ben rappresenta l’universo di culture in cui Momò si trova a crescere. Un contesto variegato che richiama la metafora di un circo (grande passione del piccolo protagonista) dove, con grande senso di comunità, nel bisogno ci si aiuta, ad esempio a spingere sulle scale la vecchia Madame Rosa. In questa situazione, Momò è costretto a crescere in fretta e prendersi a sua volta cura della donna, comportandosi da adulto in esperienze più grandi di lui, pur sperimentando le complesse emozioni di un bambino abbandonato, in costante cerca di sua madre. La pièce tocca perciò corde delicatissime, affrontando temi ancora attuali come il razzismo, l’integrazione e la vita ai margini della società.
Ciò che più colpisce è il modo in cui tutta questa narrazione riesca ad essere sviluppata da un solo attore, che riempie lo spazio scenico e dà vita a numerosi personaggi, catturando l’attenzione dello spettatore anche nei passaggi meno leggeri dello spettacolo. Degna di nota l’interpretazione del ruolo del bambino, la cui riuscita sia nella gestualità che nell’eloquio è resa ancora più evidente nel contrasto con i momenti in cui Silvio Orlando si cala nei panni di personaggi adulti, anch’essi minuziosamente delineati. Una miscellanea di maschere che l’attore napoletano indossa e cambia senza alcuna difficoltà; è un po’ come vedere all’opera Pulcinella, con le sue creative soluzioni ai problemi della vita, che lascia spazio improvvisamente a un allegro e sognatore Arlecchino. È però lo spirito di Pierrot quello preponderante: Momò è malinconico e romantico, perennemente desideroso di affetto e attenzioni.
Pur se impegnato in questa splendida e solitaria prova recitativa, sul palcoscenico l’attore non è solo: il suo monologo scorre piacevolmente anche grazie ai vivaci cambi di quadro e alle sottolineature del virtuoso quartetto musicale dell’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre. Punto di forza dello spettacolo è infatti anche il modo in cui Simone Campa, Maurizio Pala, Kaw Sissoko Kora e Marco Tardito non si limitano a un accompagnamento di sottofondo ma fungono da co-protagonisti, interagendo quasi costantemente con l’attore, sullo sfondo di una scenografia essenziale ma funzionale.
Questo adattamento teatrale dell’omonimo romanzo scritto da Romain Gary si può dire, perciò, assolutamente riuscito. Parteciparvi vuol dire dedicare una serata a del teatro di qualità, lontani dai pensieri quotidiani. Del resto, come ricorda lo stesso Silvio Orlando in apertura nell’invitare i presenti a spegnere i cellulari, “Per un’ora e mezza, potete fare a meno del mondo, e il mondo può fare a meno di voi”.