di Federica De Sanctis
In scena al Piccolo Eliseo di Roma dal 15 febbraio al 5 marzo Il lavoro di vivere tratto dal testo del maggior drammaturgo israeliano Hanoch Levin.
La regia di Andrée Ruth Shammah racconta con semplicità ed eleganza la storia d’amore di una coppia qualunque, nella quale, dopo più di trent’anni, di elegante è rimasto ben poco.
La vicenda si svolge interamente nella camera da letto dei coniugi Popoch; lo spazio scenico, costituito da poco più di un grande letto matrimoniale che in breve si trasformerà in un’arena, offre al pubblico l’impressione di spiare l’intimità della coppia. Lo spettatore si erge a giudice della vicenda ma ciò avviene solamente a tratti perché, per la maggior parte del tempo, si sente parte in causa, immedesimandosi in un personaggio o nell’altro.
Yona Popoch, il marito, interpretato magistralmente da Carlo Cecchi, sveglia la moglie nel cuore della notte riversandole addosso frustrazioni, insulti, rabbia e l’accusa di aver reso la loro vita una “pozzanghera”. Cecchi incarna perfettamente il teatro irriverente di Levin e, come è solito fare, affascina con la sua naturalezza, la sua profondità e col suo modo di parlare strascicato.
La moglie, Leviva, interpretata dalla vitale Fulvia Carotenuto, pone in essere sulle prime una timida difesa ricorrendo ai ricordi comuni più belli, nel tentativo di ricondurre alla ragione il marito deciso ad andarsene, finendo ben presto per abbandonarsi anch’essa all’insofferenza, al fastidio ed al cinismo.
Nel bel mezzo della battaglia coniugale, alle due di notte, irrompe in casa Popoch, col pretesto di avere bisogno di un’aspirina, l’amico Gunkel, interpretato in maniera impeccabile da Massimo Loreto.
Gunkel, evidentemente in cerca di calore umano, nonostante avverta perfettamente la tensione della coppia, si trattiene in casa degli amici chiedendo la restituzione di un vecchio cappello prestato anni prima a Yona.
La sua presenza interrompe momentaneamente le ostilità della coppia che ben presto riaffiorano con l’uscita in scena di Gunkel, la cui figura dimostra che l’insoddisfazione è inevitabile a prescindere dallo stato civile.
Accanto ai tre personaggi assume un ruolo fondamentale la musica del popolo ebraico, curata da Michele Tadini, che enfatizza l’amore di Levin per la propria terra e la sua cultura presente in tutta l’opera. L’assenza di un’espressa tematica politica è sostituita dalla tematica etica che spinge a chiedersi quale sia il senso di una vita priva di bellezza, arte e spiritualità.
La solitudine è totale, i colpi bassi si susseguono con ferocia e sarcasmo; la favola di una vita che avrebbe dovuto essere un fiume sembra dissolversi amaramente.