La cronaca avventurosa e le furibonde polemiche che accompagnarono l’esposizione della celebre creazione alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1959 narrate da Giuseppe Garrera, storico dell’arte, musicologo e collezionista. Nella serata del 17 luglio al MaCro, museo d’arte contemporanea di Roma, nell’ambito dell’iniziativa “Un’opera”, è stato analizzato per il pubblico “Grande sacco” di Alberto Burri, famoso e controverso capolavoro di uno dei più grandi artisti italiani del Novecento. “Lo scandalo inizia quando alcuni visitatori vedono l’opera esposta e scrivono ai giornali dicendo che c’è, letteralmente, una schifezza incorniciata”, esordisce Garrera. Seguiranno volgari e reiterati attacchi personali alla direttrice della Galleria Palma Bucarelli da parte di politici e intellettuali, interrogazioni parlamentari e campagne stampa che, tuttavia, contribuiranno solo a sottolineare l’importanza di un’opera che si fa metafora della condizione umana in epoca moderna.
“La signorina adora gli stracci” è il titolo del settimanale Lo Specchio che inaugura la stagione degli insulti a Palma Bucarelli, prima direttrice di un museo nazionale in Italia, per la sua scelta di esporre Grande Sacco di Alberto Burri alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. “Da quel momento in poi tutti, nessuno escluso, chiameranno la Bucarelli signorina. Giorgio De Chirico addirittura la definì amazzone delle croste”, aggiunge Garrera sottilineando come una donna di quarantotto anni non sposata e senza figli dovesse, di conseguenza, per una certa morale dell’epoca perdersi in scemenze da “zitella isterica” come scambiare l’immondizia per arte. Tale schema si ripeterà identico ovunque, dai giornali al Parlamento, dove verranno presentate due interrogazioni per chiedere lumi sulle voci che parlavano di un pagamento di due milioni di lire per l’acquisizione dell’opera. E neppure la smentita di quelle insinuazioni placò gli attacchi, perché il problema non era solo il “Grande sacco” ma l’arte astratta in generale, considerata inferiore a quella figurativa e realista anche da intellettuali dell’epoca come Luigi Bartolini.
Ed è qui che i detrattori di Alberto Burri e di altri artisti come Pier Paolo Pasolini, a cui lo stesso Burri viene accostato, forniscono senza volere una chiave di lettura dirompente per analizzare opere come Grande sacco. “Anche chi critica”, dice Garrera, “si accorge che deve usare una terminologia particolare. Quei sacchi sono fatti di iuta, sono delle tele. Queste tele però non possono più essere lavorate e perciò si legano alla tradizione acheropita, ossia opere non realizzate da mano umana ma semplicemente impresse sulla materia. Nei sacchi di Burri è stata messa in cornice, quasi fosse un ostensorio, una tela su cui avrebbe dovuto proiettarsi l’anima dell’artista ma che invece ha assorbito tutte le macchie, le ferite, i rattoppi, la polvere, l’invecchiamento dell’esistere. In quella cornice, quindi, c’è la storia, la caducità di una cosa. Proprio come una Sindone terrena che abbia assorbito tutto il male della vita. Guardare quelle opere significa contemplare la nostra anima. Noi stessi siamo sacchi di Burri, siamo tele usate che portano su di sé i segni del vivere”.
la modernità vorrebbe un mondo di uomini e cose invulnerabili al tempo e “l’arte materica e Burri”, conclude Garrera, “sembrano invece invitarci alla contemplazione tragica e meravigliosa della permeabilità delle cose, provando pietà per il loro invecchiamento. Il Sacco di Burri è l’apoteosi dell’umano che ci racconta dei Misteri Eleusini, quando gli Dei scendono sulla terra per incontrarci e chiederci cosa significhi essere mortali. E gli uomini cercano di spiegare agli Dei ciò che questi non potranno mai capire: che l’uomo vive una volta sola e ogni saluto per lui è un addio”.