Ha debuttato martedì 5 ottobre e rimarrà in scena fino a sabato 9 negli spazi del Teatro India di Roma, lo spettacolo “sovrimpressioni_roma”, altresì descritto come “performance per un numero limitato di spettatori liberamente ispirata al film Ginger e Fred di Federico Fellini” e primo tra i 3 lavori della compagnia Deflorian/ Tagliarini, che il Teatro di Roma ospita in questo inizio di autunno che tutti speriamo possa segnare la piena e continuativa ripartenza delle classiche stagioni teatrali.
Di Giuseppe Menzo
Seduti alle estremità di un lungo tavolo rettangolare, all’interno di uno spazio di rappresentazione sostanzialmente vuoto, e non stiamo parlando in questo caso del classico palcoscenico di un Teatro all’italiana, ma di un’ampia sala anch’essa rettangolare con le sedute degli spettatori a delimitarne il perimetro, scenicamente separati alla vista da uno specchio double-face che divide in due porzioni uguali il più grande elemento presente in tutto quanto l’ambiente e accompagnati da due giovani silenziose donne che paiono prendersi cura degli attori e dei personaggi da loro interpretati mediante la nobile arte del trucco e parrucco, i registi/ideatori/interpreti mescolano, come ormai noto nella loro conclamata cifra stilistica, aneddoti delle loro vite personali a suggestioni, ricordi e interrogativi delle figure che maneggiano.
Viaggiando a partire dai Pippo ed Amelia del felliniano film di riferimento, ai Marcello Mastroianni e Giulietta Masina che li interpretano, passando poi alla divina Greta Garbo e non dimenticando i titolari della compagnia che firma la produzione, chi assiste è sommerso da una importante quantità di parole, immagini evocative e racconti all’interno dei quali si fa fatica a distinguere tra realtà e fantasia. Il Teatro della compagnia in questione presuppone attenzione e conoscenza e anche un pizzico di resistenza.
È un Teatro che si fida, (troppo?) della propria capacità di narrazione e di coinvolgere dimenticando forse che l’uditorio potrebbe correre il rischio di allentare il proprio rapporto con la storia in divenire in assenza di vibranti variazioni ritmiche ed energetiche. È un flusso regolare quello dei due autori/esecutori in cui diventa poi difficile ritenere veritiera l’unica sferzata emotiva che viene accennata quasi in chiusura di spettacolo da Daria Deflorian.
Si ha l’impressione che l’idea alla base della rappresentazione sia forte e succosa, ma, allo stesso tempo, pare mancare la verve giusta per sostenerla, dato che i 70 minuti di racconto sembrano risentire di quella che sembra essere un’ampollosità diffusa. Certo le impressioni hanno sempre il carattere della soggettività dello scrivente, ma mi sembra intellettualmente onesto mettere nero su bianco l’insieme di sensazioni ricavate dall’aver preso parte, nuovamente e con grande meraviglia, al rito collettivo per eccellenza.