Nulla di male in queste proposte – si tratta solo di verificarne l’efficacia. Ma che hanno a che fare con il riformismo? Le riforme nella sanità si sono poste storicamente l’obiettivo di assicurare a tutti il diritto alla salute. Fu una grande riforma il Piano Beveridge, la prima proposta organica di servizio sanitario nazionale elaborata nel 1943, quando ancora le sorti della guerra non erano decise, nella Londra bombardata dagli aerei tedeschi. Quel progetto fu poi realizzato dai laburisti in Gran Bretagna, e a quel progetto si ispirarono le grandi riforme sanitarie europee. Fu una grande riforma anche l’approvazione legislativa del nostro Servizio sanitario nazionale.
Ma il mondo cambia, è passato più di mezzo secolo: il discorso non può essere quello di restare dogmaticamente legati a uno schema, ma di discuterlo, analizzarne le criticità, verificare se ne sono state realizzate le finalità, promuoverne il rinnovamento. In altre parole, andare avanti sulla via del riformismo reale, non del ritorno all’indietro.
In sanità il pubblico funziona meglio del privato
Ma prima di tutto bisogna rispondere ad alcuni interrogativi: Funziona il nostro Ssn? Le risorse ad esso destinate sono eccessive, se paragonate agli altri Paesi? E sono utili, cioè producono effetti quantificabili? Le risposte non sono difficili. La spesa pubblica per la sanità, espressa in percentuale del Pil, è più bassa della media delle spese pubbliche degli altri Paesi europei, mentre la spesa globale (pubblico + privato) ha un valore che corrisponde alla media europea. Con queste risorse, il Ssn italiano ha raggiunto risultati ottimi: la durata media della vita è tra le più alte del mondo, la mortalità neonatale è tra le più basse e in alcune regioni, ad esempio la Toscana, raggiunge livelli di assoluta eccellenza (2 per mille, la più bassa del mondo). In generale, anche gli altri indicatori di salute sono molto buoni.
Quel che non funziona è, invece, il sistema sanitario privato, come dimostra l’esempio statunitense. Gli USA spendono più del 15% del Pil per la sanità (pubblico + privato) a fronte del nostro 8,6% e gli indicatori di salute sono tutti peggiori di quelli europei. La contraddizione più clamorosa consiste nel fatto che per la sanità pubblica gli USA spendono praticamente quanto noi (più del 6% del Pil), assicurando con questa somma soltanto l’assistenza ai poveri (Medicaid) e agli anziani ultrasessantacinquenni (Medicare) senza garantire loro l’assistenza farmaceutica extra ospedaliera e lasciando senza alcuna tutela della salute più di quaranta milioni di cittadini, che non hanno i mezzi per ricorrere alle assicurazioni private. Questo è un esempio significativo di sistema non efficace e non efficiente, che alcuni “riformisti” vorrebbero applicare al nostro Paese.
Quanto scritto finora non vuole minimamente idealizzare il nostro Ssn. Vuole soltanto affermare che nella sanità la via europea, la via del diritto alla salute riconosciuto a tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, è vincente, è più equa e perfino meno dispendiosa.
Ma occorre attaccare i punti critici
Se analizziamo criticamente il nostro sistema sanitario, notiamo che è caratterizzato da grandi dislivelli di qualità assistenziale tra regione e regione, che negli ultimi cinque anni la dinamica espansiva della spesa è stata eccessiva, anche a causa di sprechi assolutamente inammissibili, ma anzitutto che l’indice di gradimento del Ssn da parte dei cittadini è ancora piuttosto basso, anche se con differenze tra regione e regione. Perché un sistema che comunque funziona viene ancora fortemente criticato da molti cittadini? Perché non ha al suo centro i cittadini e le loro esigenze, ma i direttori generali nominati dai partiti e gli operatori sanitari con le richieste corporative.
Da molti anni, nelle società più avanzate viene avvertita l’esigenza di costruire una sanità a misura di essere umano, capace di rispettare i diritti dei cittadini malati. In Italia, una sanità con queste caratteristiche è ancora lontana dall’essere realizzata, e la sua realizzazione è la prima vera riforma indispensabile. Centinaia di divieti, di norme assurde, di ottuse regole burocratiche opprimono ancora il cittadino malato, anche se in alcune regioni si sono fatti sforzi per superarli. Il cittadino ricoverato in ospedale può ricevere amici e parenti in orari stabiliti dalla direzione, spesso soltanto una o due ore al giorno; riceve il pasto serale talvolta alle 17 del pomeriggio (anche d’estate con l’ora legale e il sole a picco); viene svegliato la mattina all’alba; esprime un consenso al proprio trattamento terapeutico spesso solo formale, senza che gli venga spiegato in che cosa consisterà; in molti studi di medici di medicina generale deve prendere un numero per essere visitato, come al Supermercato, e comunque aspetta ore in anticamere affollate; e così via.
Si può chiedere al ministro della Salute, che è sensibile a queste tematiche, di convocare una conferenza Stato-Regioni con all’ordine del giorno l’abolizione di questa fitta rete di proibizioni e di cattive abitudini, basate tutte sul presupposto che il cittadino malato è un oggetto da regolamentare e non il soggetto della sanità, colui che paga con le proprie tasse tutte le prestazioni e quindi anche gli stipendi degli operatori sanitari e dei direttori generali? Si tratta peraltro di riforme senza spese, che liberano l’utente dai lacci e laccioli di una ottusa burocrazia.
Riparare l'errore dell'intramoenia
Altro intervento di rinnovamento dovrebbe essere quello relativo alla cosiddetta “intramoenia”. L’ “intramoenia” è un discutibile istituto introdotto dalla legge Bindi come mediazione, forse necessaria, con le organizzazioni mediche, che assicura la libera professione all’interno degli ospedali ai medici ospedalieri. La conseguenza pratica – in realtà vietata dalla legge – è stata che nella grande maggioranza degli ospedali italiani l’appuntamento per qualsiasi prestazione specialistica viene dato molto in ritardo, talora anche dopo molti mesi. Se si paga l’ “intramoenia”, tuttavia, l’appuntamento è per il giorno successivo alla richiesta. Gli ospedali pubblici, costruiti e mantenuti con le tasse dei cittadini italiani, dunque, sono sede di una odiosa discriminazione a danno di coloro che li finanziano, ma che non hanno la possibilità di sborsare denaro una seconda volta al momento del bisogno. Nonostante i molti tentativi di superarlo, il problema delle liste di attesa differenziate persiste nella sua gravità nella maggioranza delle regioni, come fatto illegale, di cui sono responsabili gli assessori della sanità e i direttori generali, perché la legge le esclude con chiarezza.
Combattere la lottizzazione…
Il secondo grande rinnovamento indispensabile della sanità italiana è la fine della pratica della lottizzazione da parte dei partiti dei posti di dirigenti del Ssn: non solo dei direttori generali – che è comunque un male – ma perfino dei primari e degli altri dirigenti tecnici, il che rappresenta una autentica vergogna. La legge che regola la scelta dei primari da parte dei direttori generali fu approvata in base al presupposto che i manager non avrebbero potuto che scegliere i migliori medici, perché dovrebbe essere loro interesse che la struttura cui sono preposti funzioni; ma non ha tenuto conto della pratica deludente della politica italiana. I direttori generali sono stati quasi sempre selezionati secondo una ripartizione di posti tra i partiti della coalizione vincente nella regione. Non sono quindi i migliori manager e hanno introiettato nel loro Dna il sistema della lottizzazione. Prodotti della lottizzazione e lottizzatori a loro volta, scelgono in questo modo primari e dirigenti, anche perché sono strettamente sorvegliati dagli apparati burocratici degli assessorati. Non sempre le cose si svolgono in questo modo, ci sono regioni e direttori generali che scelgono in base alle competenze; ma la lottizzazione è pratica maggioritaria nella sanità italiana. E’ ormai largamente avvertita dall’opinione pubblica la necessità di togliere alle burocrazie dei partiti almeno la scelta dei primari e degli altri dirigenti tramite i direttori generali. Una iniziativa legislativa in questa direzione – ma non credo ce ne siano ancora le condizioni – restituirebbe grandi speranze agli operatori sanitari, avvierebbe meccanismi di competizione e di approfondimento culturale, indispensabili nella medicina moderna, pur nella consapevolezza che anche i concorsi o altri sistemi di selezione possono produrre fenomeni di clientelismo e nepotismo; ma in questo campo si può fare riferimento a una larga esperienza internazionale.
…per rilanciare il compito vero della politica
Il rifiuto della lottizzazione da parte dei partiti rafforzerebbe, in realtà, il ruolo della politica correttamente intesa, che in questo campo ha compiti di straordinaria importanza. Deve decidere la quota di risorse economiche da destinare alla sanità eliminando gli sprechi; coordinare le gestioni regionali nel tentativo di superare le disuguaglianze assistenziali tra le varie regioni; individuare i livelli essenziali di assistenza, garantendo un’assistenza qualitativamente elevata; incentivare le campagne di prevenzione e l’assistenza sul territorio; utilizzare il privato solo quando serve e se serve. La politica, inoltre, ha il compito di verificare il lavoro dei direttori generali e degli operatori sanitari utilizzando parametri oggettivi, cioè di monitorare l’attività di coloro che dovrebbero essere stati scelti con criteri di merito, piuttosto che lottizzare e non effettuare poi alcun controllo.
L’esempio del Lazio è significativo. Non c’è dubbio che la sanità laziale è stata gravemente danneggiata dall’amministrazione Storace, ma resta il fatto che ancora nel 2006 la spesa farmaceutica convenzionata, per la quale è previsto un tetto nazionale del 13% della spesa sanitaria, ha raggiunto il 19%, con uno sfondamento di quasi 500 milioni. A Bolzano, la percentuale è stata dell’8,8%; in Toscana dell’11,3; in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna dell’11,6%. Perché questa differenza così impressionante, peraltro nota e denunciata dal Comune di Roma nel 2003? Nell’anno e mezzo di gestione della giunta Marrazzo la spesa farmaceutica ha mantenuto e perfino aggravato i precedenti livelli patologici e questa è una responsabilità dei direttori generali e forse anche dell’assessore alla Sanità.
Ricercare l'appropriatezza senza peggiorare la qualità
In realtà, a parte un rigoroso intervento contro la mala gestione, i disordini amministrativi e i reati più volte accertati, una grande possibilità di assicurare livelli razionali di consumi sanitari senza penalizzare l’utente è quella di garantire l’appropriatezza delle prestazioni. Si calcola che la sola inappropriatezza, cioè il solo ricorso a prestazioni inutili, può far salire del 10% la spesa sanitaria. Ne è convinto il ministro Livia Turco che nel DPFR sulla sanità ha individuato nell’appropriatezza l’obiettivo da raggiungere. E’ un obiettivo di grande importanza culturale, che comprende la selezione dei dirigenti in base al merito, il monitoraggio delle prestazioni, l’educazione medica continua, la ricerca clinica. In altre parole, una medicina basata sulle evidenze scientifiche, quella che a livello internazionale viene chiamata evidence based medicine.
Pur con tutti gli accorgimenti dei quali abbiamo finora parlato è razionale prevedere un aumento della spesa sanitaria negli anni futuri. Se la sanità funziona bene, infatti, aumenta il numero degli anziani (l’aumento è stato impressionante negli ultimi trent’anni). E’ un obiettivo che tutti gradiscono, perché tutti vogliono vivere più a lungo. Gli anziani, tuttavia, sono più fragili, ricorrono più frequentemente alle cure e la spesa sanitaria aumenta. Gli economisti devono sapere che questo fenomeno si può controllare, ma non bloccare. E devono predisporre le misure necessarie perché questo cambiamento epocale avvenga nel modo più tranquillo e armonioso possibile.