Ha debuttato martedì 12 ottobre al “Teatro Vittoria” di Roma lo spettacolo La tovaglia di Trilussa. Scritto da Ariele Vincenti e Manfredi Rutelli, interpretato dallo stesso Vincenti, accompagnato dalla musica dal vivo del Maestro Pino Cangiolesi e sotto l’attenta supervisione artistica di Nicola Pistoia.
Di Olimpia Ferrara
In scena fino a domenica 24 ottobre, dato il recente ritorno alla capienza piena di cinema e teatri e constatato l’alto valore artistico di La tovaglia di Trilussa, ne consiglio la visione. La scena si apre su un palco apparentemente spoglio: un tavolone bello lungo che sembra pronto ad accogliere parecchi commensali e, sulla destra, il Maestro Cangiolesi che introduce, in musica, l’interprete Ariele Vincenti il quale, da subito, annulla la distanza tra palco e platea. Non scende dal palco e non fa un’azione fisica per annullare la distanza ma mette in campo l’energia di chi sa raccontare una storia e lo fa mettendosi a servizio di essa.
Merito anche della lingua scelta per raccontare: la visceralità del romanesco che subito ci catapulta fra le mura di un’osteria che odora di vino e polpette al sugo. Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa, durante la vecchiaia, passava molto tempo allo zoo a dar da mangiare ‘all’uranguttano’, ovvero all’orangotango, e Remo, il nonno di Ariele Vincenti, era proprio il custode dello zoo di Roma. Un bel giorno Trilussa, ormai settantenne, invita Remo, allora ventenne, in osteria.
Da qui inizia il racconto dell’uomo e poeta Trilussa: nascita, amori, successi, gioie, dolori e perfino come soleva vestirsi. Ariele Vincenti ci conduce in un viaggio attraverso gli odori e i sapori della Roma di fine ‘800 dai colori vivacissimi, una Roma che respira attraverso un popolo che non riposa mai, neanche la notte. Tutto è svelato, Trilussa non ha segreti per Roma e per i romani che, proprio per questo, lo adorano eppure lui non fa nulla per ottenere tanta stima e tanto successo se non essere fedele a sé stesso e al suo bisogno di tradurre la vita che lo attraversa, in poesia.
Gli viene naturale, non può farne a meno, anche Ariele Vincenti non può farne a meno, raccontare ad arte è una necessità e un’urgenza anche per lui. Sotto questo aspetto interprete e personaggio si somigliano. Il racconto non si interrompe mai, la prosa è sapientemente mescolata alle poesie di Trilussa e alla musica che sorregge con delicatezza tutto l’arco dello spettacolo.
Ancora una volta la sapienza e l’esperienza dell’attore ci riportano verso il teatro artigianale, fatto a mano, semplice e complesso allo stesso tempo e verso il bisogno atavico che l’uomo ha di raccontare e condividere storie.