Le Muse Orfane di Michel Marc Bouchard, in scena dal 3 al 19 febbraio al Teatro Argot di Roma, in prima nazionale, è un capolavoro, sia per la profondità del testo, denso di significati e dalle molteplici sfaccettature, sia per la bravura degli attori che lo portano in scena rivelandosi quale vera e propria perla di talento e spessore.
Questa pièce dal titolo intrigante ed evocativo, per la regia di Paolo Zuccari, è ambientata in una stanza che sembra appartenere ad un passato remoto e, ben presto, comprendiamo che quel luogo fisico si traduce nello specchio dell’anima dei protagonisti, immersa in un tempo che, per quattro fratelli, si è arrestato sorprendentemente tantissimi anni fa quando, d’improvviso, hanno perso la madre.
Tra vecchi bauli, vestiti demodé, mobili di foggia desueta di una vecchia casa di una provincia retrograda, la scena si apre sulle loro vite, sconvolte da un’assenza che, ciascuno a modo proprio, negli anni, ha cercato di colmare.
Caterina, la figlia maggiore, si è sostituita alla figura genitoriale sobbarcandosi ogni responsabilità, divenendo madre di fatto, seppur non di diritto o di natura, alternando, come ogni madre, meriti e sbagli.
Lisa, invece, la piccola di casa, sembra aver scelto di rimanere bambina per sempre, magari per poter continuare ad essere figlia molto a lungo, con tutti gli errori che a volte i figli commettono, tra gratitudine e rancori e quella smania di ribellarsi ed imparare a vivere di testa propria.
Luca, il maschio di casa, scrive da vent’anni lo stesso romanzo e si sforza incessantemente di proteggere il ricordo di quella madre scomparsa, alimentandone il mito.
Martina invece, con la propria omosessualità, cerca forse l’amore di sua madre in ogni donna, anche se tenta di mettere distanza tra sé e i ricordi, riservandogli freddezza e distacco.
Sul palco, le bravissime Antonella Attili, Stefania Micheli, Elodie Treccani, insieme al più che convincente Paolo Zuccari, stavolta in veste di attore, portano in scena l’incontro-scontro tra queste quattro anime lacerate dalla perdita, cristallizzate in quei loro ruoli, scelti per sopravvivere al trauma della solitudine e del venir meno del punto di riferimento cardine di ogni esistenza, quale solo una madre può essere.
La genitorialità voluta e mancata, negata e sottratta, letta dal punto di vista dei genitori e dei figli, è al centro di questa storia che commuove e fa riflettere. Riuscire a trattare, scavandolo a fondo, un tema tanto importante e delicato, senza svilirlo di retorica o appesantirlo di superfluo, non dev’essere stato un compito facile e, quindi, alla regia e agli attori va senz’altro il plauso di avere tratto il meglio di questo atto unico che ci ha colpiti nel profondo.
Abili colpi di scena tengono viva l’attenzione dalla prima battuta fino all’ultima e si rivela geniale l’escamotage utilizzato dal regista per rendere, attraverso una recita nella recita, il flashback dei ricordi, aprendo, a ritroso, una finestra temporale nel tempo ordinario del racconto, utilizzando gli stessi attori e gli stessi elementi di scena.
Le Muse Orfane si presenta come un’imperdibile occasione per riflettere, attraverso una storia appassionante, avvincente e coinvolgente, su cosa significhi essere genitori, con le proprie responsabilità, da accogliere o disattendere, il proprio carattere, i propri difetti, i propri sogni, le proprie fallibilità e contraddizioni. Se però si è genitori è solo perché esistono i figli, e se questi due aspetti, com’è ovvio, sono facce diverse di una stessa medaglia, ecco che veniamo interpellati a domandarci altrettanto su cosa voglia dire essere un figlio. Un figlio, ci dicono tacitamente dal palco tra le righe della storia, è il frutto di tutto ciò che una madre è stata ma anche di tutto ciò che non è mai stata, e qui c’è tutta la vulnerabilità dell’esistere che inchioda, per un’ora e mezza, lo spettatore sulle gradinate.
Non ci sono scuse per non andare a vedere uno spettacolo come questo perché tutti noi, genitori o figli, siamo chiamati a riflettere, da queste Muse Orfane, su tutto ciò che i nostri genitori sono o non sono stati e su tutto ciò che siamo o non siamo diventati.