La montagna alla fine ha resistito. La vetta del Nanga Parbat è rimasta ancora una volta inviolata in inverno e anche gli ultimi tentativi di Daniele Nardi e del suo team non sono andati a buon fine.
L’avevamo lasciato il 12 marzo a quota 7200 pieno di entusiamo ed energie per tentare lo strappo finale, pronto e carico. Nonostante le difficoltà e le vicissitudini incontrate in questi mesi dall’alpinista di Sezze Romano, infatti, partito con l’intento di domare il celebre ottomila himalaiano in invernale, senza aiuti e percorrendo una via nuova, c’era aria di impresa. Quella mai riuscita a nessuno, che se fosse stata realizzata avrebbe avuto del leggendario.
“Siamo in difficoltà, abbiamo bisogno di portare Ali giù da qui il più presto possibile. Non può vocalizzare correttamente, dice sciocchezze e non è in grado di coordinare il suo corpo; è un segno molto brutto”, spiega preoccupato via radio Alex Txikon, l’alpinista basco che si era unito all’avventura di Daniele dopo la decisione di quest’ultimo di abbandonare il mitico sperone Mummery per tentare la via normale, più sicura, per la vetta. A quel punto il gruppo si precipita giù: ” (Ali) E’ in grado di camminare da solo, ma molto goffo e lento”, avverte ancora Txikon.
Una volta al Campo Base sani e salvi, dopo 9 ore di discesa estenuante, e smaltita almeno in parte la grande stanchezza, si può iniziare a riflettere su quanto accaduto e a porsi domande. Alex e Daniele si chiedono perché Ali non li abbia avvertiti dei malori: “Camminava disorientato, come se spaventato” ricordano i due atleti, “fino a quando improvvisamente ci ha detto che eravamo sulla strada sbagliata e non aveva altra scelta che tornare a C4”. Una situazione che si dovrà chiarire.
Per ora, la cosa più importante è che Ali e gli altri stiano bene. “Sembra siamo giunti ad un risultato definitivo, anche se non felice, ma perlomeno non è stato fatale”, concludono Alex e Daniele.