I classici a volte possono risultare pesanti agli occhi dei moderni. La regia di Antonello Capodici è riuscita a sconfessare questo spettro e a restituire al pubblico il gusto di apprezzare un Luigi Capuana attualissimo nell’ “U’ paraninfu”, figura sociale del combinatore di matrimoni, in scena al Teatro Sala Umberto di Roma dal 12 al 17 gennaio.
Enrico Guarneri si è rivelato semplicemente fantastico nei panni del protagonista Pasquale Minnedda, azzeccagarbugli degli affari di cuore di un paesino della Sicilia dei primi del ’900, così come tutto il resto del cast è stato senz’altro all’altezza del compito difficile di attualizzare la commedia.
Anche la scelta di alternare frasi in siciliano ed italiano ha rappresentato un ottimo modo per non far perdere colore alla scena e contemporaneamente comprensibilità al testo.
Don Minnedda, brigadiere della Guardia di Finanza ormai in congedo, non più impegnato nel lavoro e senza figli, che purtroppo non sono mai arrivati ad allietare il felice matrimonio con la moglie, inganna le ore di ozio cercando, con spirito filantropico e fermamente convinto della necessità dell’unione coniugale, di fare incontrare coppie di futuri sposi.
Il regista riesce a fornire un’ottima analisi psicologica dell’intraprendente Don Pasquale ed il pubblico non tarda a rendersi conto che l’ex brigadiere, se da una parte agisce per filantropia, dall’altra crea unioni per lusingare il proprio ego e vedere un riscontro concreto delle sue doti di retorica e della sua vivace intelligenza. Eppure, nell’incapacità di accorgersi di questa sua smania, il nostro paraninfo rimane in buona fede e raccoglie simpatia.
Nonostante i suoi molteplici sforzi però non sempre tutto va per il verso giusto, così alcuni arrivano ad accusarlo della propria infelicità matrimoniale e il duro lavoro di combinatore di unioni viene ripagato da rimbrotti e dalla costante richiesta di consigli utili a far proseguire certi patti d’amore stabiliti unicamente a tavolino.
Don Minnedda comunque non si scoraggia e, imperterrito, vuole compiere il colpo più audace della sua carriera di paraninfo: riuscire a maritare le due sorelle Matanè che, vera iattura del creato, pur essendo ricche, oltreché indicibilmente brutte, sono anche parecchio spilorce.
L’impresa di garantire alle due donne due valenti sposi, animerà il cuore cruciale della rappresentazione e metterà il paraninfo di fronte ad una grande verità: dalla filantropia alla facilità di coprirsi di ridicolo il passo è molto breve. Del resto chi la fa l’aspetti, si suol dire…
L’ambientazione ricreata sul palcoscenico di un ridente cortile borghese dell’assolata Sicilia dei tempi che furono, insieme ai costumi di Riccardo Cappello realizzati dalla sarta Marta Ragonese, si uniscono alle descrizioni degli agrumeti, delle distese di ulivi e dei campi di grano, per trasportare il pubblico laggiù, ai piedi dello Stivale, fuori dal “continente”, in un tempo e in un luogo che sanno di eterno.
Su questo sfondo, sul palco salgono l’onore, il rispetto di regole sociali a volte scriteriate, cliché borghesi e principi educativi che si rivelano una gabbia dorata utile spesso solo ad imprigionare le vite delle persone. Don Pasquale, in fondo, vuole fare solo gli altri felici come lo è lui. Quello che gli sfugge è che ognuno ha il suo percorso e che il segreto della sua felicità non è nella regola del matrimonio, ma nella vantaggiosa alchimia che ha avuto la fortuna di creare con sua moglie. Si esce dal teatro con una certezza in più: non c’è una regola per essere felici.