La prigione situata nella Baia di Guantanamo, fu inaugurata l’11 gennaio del 2002, subito dopo l’attentato dell’11 settembre. Il campo di detenzione venne concepito come il luogo fuori dal diritto e simbolo che la nuova Guerra al Terrore era appena iniziata.
Io non sono granturco, che ha debuttato ieri al Teatro Lo Spazio e sarà in scena fino al 23 gennaio, prende le mosse dalla vera storia di Hassan Shafei, trent’anni, finito nel mirino dell’FBI per sospetto collaborazionismo con Al – Qaeda e letteralmente deportato nella prigione di Guantanamo. La scena si apre su un ragazzo dai tratti somatici orientali che è visibilmente impaurito e che gira sul palco toccando e battendo su tutte le superfici cercando di capire se c’è una via d’uscita. Stremato cade in ginocchio e inizia a pregare in arabo. Entra una donna che indossa un tailleur nero, ha l’aspetto molto professionale. Capiamo subito che la donna è il carnefice, che Serena Borrelli traduce con un’interpretazione potentissima e inscalfibile che non lascia spiragli per l’insinuazione di un po’ di umanità, e l’uomo la vittima, interpretato da David Marzi che, grazie ad un rapporto empatico con il pubblico, ci chiama continuamente a testimoni di fatti così scomodi che ci piacerebbe voltarci dall’altra parte.
All’inizio i due attori non dicono una parola, tutto sta nella presenza scenica, nell’energia emanata dal corpo e dalle intenzioni. Segno di un lavoro interpretativo che si è sedimentato e si è fatto carne. La storia vive attraverso i loro corpi e le loro emozioni, firma di una regia, quella di Giorgia Filanti, che parte dal corpo e dalle emozioni per iniziare a creare. Grazie a questo tipo di lavoro, le parole si fanno materia e non arrivano alle orecchie dello spettatore, bensì direttamente alla pancia, senza chiedere il permesso. Inizia un interrogatorio da subito molto serrato ma ancora umano in cui la violenza è perpetrata solo attraverso le parole. La drammaturgia di Antonio Mocciola ci fa entrare subito nella situazione creando un ritmo incalzante che via via rallenta, lasciando il posto ad un immaginario sempre più disumanizzante e degradante. Sia vittima che carnefice procedono verso la perdita della dignità, del pudore e dell’identità. È la donna a tenere le redini di un gioco subdolo fatto di insinuazioni e violenza psicologica ma che presto diventerà anche fisica ed emotiva.Nella sua regia Giorgia Filanti usa la musica in modo drammaturgico: la musica è al servizio del testo e delle dinamiche dello spettacolo e non viceversa. Il pubblico esce dalla sala con le viscere scombussolate e con un unico pensiero nella testa e nel cuore: quest’anno decorrono i vent’anni dall’apertura della prigione di Guantanamo, ci sono ancora quaranta detenuti al suo interno e, ad oggi, nessuno ha avuto il coraggio di chiuderla.