L’astronauta moderno ripercorre il proprio viaggio con la memoria. Daniele Nardi, l’alpinista italiano che ha tentato la scalata del Nanga Parbat in invernale, senza aiuti e lungo una via nuova arrivando più in alto di tutti sul gigante himalaiano in questa stagione, ha raccontato la propria avventura in occasione della conferenza stampa del 30 marzo in Campidoglio, a Roma.
Un’impresa mancata per poche centinaia di metri, dopo essere sopravvissuti a pericoli e vicissitudini, che tuttavia proietta di diritto il team dell’atleta originario di Sezze Romano, giunto ai 7830 metri assieme al basco Alex Txikon e al pakistano Ali Sadpara, nella storia dell’alpinismo mondiale.
L’analisi non può che iniziare da una considerazione generale ineludibile: “Anni fa scelsi di fare l’alpinista”, esordisce Nardi, “feci una scelta verso la vita. La responsabilità nei confronti di Ali ha superato di gran lunga qualsiasi cieco desiderio di vetta. È per questo che siamo scesi. Fossimo stati anche ad un solo passo dalla vetta la Vita è sempre più importante di qualsiasi altra cosa“.
Dopo giorni estenuanti di salite e valanghe, fatica e scarsità di risorse per recuperare le forze i tre arrivano infatti a un soffio dalla vetta, ma al buio sbagliano strada e nel frattempo Ali accusa i primi sintomi di un edema. Non c’è altro da fare che scendere. “Il sesto giorno dopo aver scalato per circa 5 ore al buio, il dubbio di non esser sulla strada giusta è scoraggiante e il principio di edema che ha colpito Ali fa sfumare il nostro sogno di raggiungere la vetta. Abbiamo cercato di dare il massimo e questa è la soddisfazione più bella”.
Una consapevolezza che supera ogni amarezza per essere arrivati tanto vicini alla leggenda e non averla potuta afferrare. “Io sono strafelice del risultato ottenuto. Il dolore per aver mancato la vetta passerà presto per lasciar spazio ad altri progetti. Mi piace pensare a quello che abbiamo fatto e non a quello che è mancato. Abbiamo la Vita salva. Alì è in fase di recupero. Questo per me è un grandissimo successo, un’esperienza densa e piena di avvenimenti.
Un gruppo costituitosi per caso, quello formato dagli atleti che hanno sfiorato la celebre vetta, dopo la vicenda legata a Eli e Tomek e il successivo abbandono per infortunio di Roberto Delle Monache. Alex, Daniele e Ali hanno lavorato insieme in maniera incredibile. “Nessuno di noi ha avuto il dubbio sul fatto che in vetta o tutti o nessuno”, aggiunge Nardi. “Un concetto che è sempre più difficile trovare ma, alla nostra squadra, è venuto spontaneo. Il senso di responsabilità ha prevalso su ogni altra cosa. Non era pensabile lasciare Ali da solo nella discesa con le difficoltà che aveva in quel momento”.
“So che al momento siamo tutti concentrati sui quei metri che mancavano alla vetta passando per la Via Kinshofer”, conclude l’alpinista italiano riferendosi alle due vie che sono state percorse per salire in vetta: l’originario Sperone Mummery e la successiva via normale, “ma vi garantisco che sullo sperone Mummery c’è una storia bellissima da raccontare. Un tentativo solitario che quest’anno si ferma a 6200m solo perché una valanga aveva distrutto il campo 3 poco più in basso”.
La montagna ha resistito, quindi, ma senza pretendere prezzi troppo alti da chi si era incamminato su di essa. Forse perché, in fondo, non esitono montagne killer, come il Nanga Parbat ha fama di essere, ma solo uomini sfortunati o imprudenti. Non era questo il caso.
Marco Bombagi