l’Argot Studio di Roma apre la sua stagione con “Una relazione per un’Accademia”, andato in scena dal 21 al 23 novembre, tratto da un racconto breve di Franz Kafka del 1917. Interpretato e diretto da Tommaso Ragno scenografie di Katia Titolo aiuto regia Maria Castelletto disegno luci Giuseppe Amatulli
lo spettacolo inizia con una porta che sbatte, entra goffamente in scena una sagoma tutta nera, claudicante, un po’ piegata su sé stessa e con una borsa di quelle di pelle che siamo abituati a vedere nelle mani dei professori universitari. Un ragazzo in frac, dai modi più eleganti, toglie il cappotto e la bombetta a questa sagoma nera che, alzando la testa, rivela il viso di Tommaso Ragno: in frac anche lui e con la testa ricoperta di un fittissimo pelo nero e due grandi orecchie di colore scuro anch’esse. Con una certa urgenza Ragno tira fuori dalla borsa una relazione che poggia su un leggio e poi siede su questa alta sedia di ferro. Si presenta, si chiama Pietro il Rosso, scimmia strappata al suo branco per essere portata tra gli umani. Con dovizia di particolari ci espone tutte le tappe, i sentimenti, i pensieri che lo hanno attraversato dalla sua cattura fino al suo ingresso in società. Ci sbatte in faccia tutte ma proprio tutte le brutture a cui è stato sottoposto eppure il suo racconto non tradisce rancore, rabbia o voglia di vendicarsi. Più il racconto avanza e più ci facciamo piccoli piccoli, siamo davvero noi il cosiddetto genere umano che si macchia di queste violenze verso altri esseri viventi?
Allora è questo che accadrebbe se un bel giorno, uno dei tanti animali ammassati negli allevamenti intensivi, potesse parlare e raccontarci che cosa sono costretti a subire prima di andare al macello. Il racconto continua, incalza, poi una battuta si staglia su tutte: Pietro il Rosso ci rivela che lui imita gli umani non perché siamo migliori di lui ma perché vede l’imitazione come l’unica via d’uscita. Notevole il lavoro fisico di Tommaso Ragno che è preso da piccoli tic scimmieschi che gli sono rimasti attaccati addosso nonostante i cinque anni trascorsi tra gli uomini. Tic che tradiscono il malessere di un animale nato libero e strappato alla sua natura da un gruppo di uomini che pensavano di portarsi a casa un souvenir, un fenomeno da baraccone. È uno spettacolo che ci lascia uscire dalla sala con una riflessione profonda: Quando precisamente abbiamo deciso che il nostro modo di vivere fosse il migliore di tutti? Gli occhi di Pietro il Rosso diventano i nostri e non possiamo fare altro che stare dalla sua parte e considerare che la società non è che un’ immensa gabbia in cui abbiamo scelto liberamente di chiuderci e così il termine “umanità” si svuota, Pietro il Rosso viene rivestito dal suo “tutore”, come ultimo libero gesto mangia una banana, forse un pizzico di sapore di casa, forse no. A noi rimane uno spettacolo denso negli occhi e un sapore di ferroso in bocca.